Archive for luglio 2008

Effetto boomerang

luglio 25, 2008

Ogni tanto mi capita di vedere dei piccioncini passeggiare mano nella mano, con gli occhi negli occhi, spensierati e la testa al settimo cielo, sicuramente lui e lei stanno passando un periodo molto bello della loro vita, forse il più bello e magari indimenticabile, davanti a loro vedranno tutto rosa e stupendo, andranno sempre d’amore e d’accordo, quello che vuole uno lo vuole anche l’alta e viceversa, saranno felicissimi!

Ma purtroppo la vita non è tutta rose, ci sono anche le spine, e quando pungono possono fare molto male, quella spensieratezza comincia a trovare la sua giusta dimensione, può anche sparire completamente, e allora che viene veramente messa alla prova l’amore tra quelle due persone, se sono veramente innamorati e si vogliono bene cominciano a superare gli ostacoli, se invece c’era in fondo qualche cosa che non girava, proprio in quei momenti saltano fuori gli scheletri dall’armadio, proprio in quei momenti si comincia veramente a conoscere chi hai al tuo fianco, e allora?

Allora…..benvenute difficoltà!

Spesso anche io penso a quelle circostanze e penso a cosa farei, per mia natura sono portato a dominare la donna, non che la voglio maltrattare, ma devo sentire di avere la situazione sotto controllo, se non avverto quella sensazione, sono capace di allontanarmi finche non ho raggiunto quello stato, anche a costo di andare a litigare o scappare, poi quando ho capito cosa devo fare, quando ho ripreso la situazione in pugno, allora ritorno, non fuggo, ma stacco la spina, poi torno, cosa che ho già fatto!, la donna queste cose non le capisce facilmente, per sua natura vuole comandare o almeno tirare i fili delle cose e la cosa stride con quello che ho appena detto e per questo che spesso ci sono problemi di relazioni di coppia, anche se non è solo questo il motivo delle innumerevoli separazioni, troppe per i miei gusti, e allora?

Allora per capire se la donna che vi sta a canto è quella giusta potete usare l’effetto boomerang, in cosa consiste?questo stile di pensiero consiste, soprattutto nel periodo di fidanzamento, come tutti vi conoscete, uscite, fate tutto quello che volete e più vi piace, se volete passate delle bellissime serate e divertenti, da soli o in compagnia, insomma innamoratevi pure follemente, ma non dimenticatevi mai dell’ effetto boomerang, ogni tanto programmate o provocate una sana e furiosa lite, non necessariamente per futili motivi, meglio per motivi seri, poi osservate come reagisce, guardate se il vostro boomerang torna in dietro oppure non torna più, se la donna in questiona torna e capisce la situazione, vuole dire che quella potrebbe essere veramente la donna che vi vuole bene e giusta per voi, pronta a rivalutare la vostra relazione, considerandovi più uomo di prima, se la donna non torna più!beh allora potete stappare le bottiglie, quella non era la donna giusta per voi!

Nella vita non esiste solo questo tipo di boomerang, ne esistono molti altri, cose o atteggiamenti che lanciamo e avvolte ritornano, delle volte fanno bene, delle volte fanno male!dipende dal tipo di boomerang, spesso questi oggetti non identificati non li conosciamo e li comprendiamo con l’esperienza, ma esistono, se solo abbiamo la fortuna di capire e sapere!

Giovanni Paolo II

luglio 25, 2008

(Wadowice, Cracovia 1920- ), papa (1978- ); primo papa non italiano dal 1523. L’approccio attivo ed energico all’ufficio pontificio, il numero dei viaggi apostolici effettuati incessantemente presso innumerevoli nazioni del globo, la capacità di riflessione e di mediazione politica e la difesa dei valori tradizionali della Chiesa – ma anche del mondo laico – quali il diritto alla vita, i diritti umani, la libertà di culto, la difesa della famiglia, la pace nel mondo e la sconfitta dell’oppressione, oltre alle decise prese di posizione contrarie all’aborto e all’eccessiva secolarizzazione dei costumi e della vita pubblica, hanno conferito un’ampia risonanza alle decisioni di un papa che ha raggiunto una vastissima notorietà sia nel mondo cattolico che, anche grazie ai mezzi di comunicazione, presso ambienti estranei al cattolicesimo.

Al secolo Karol Wojtyla, nato da una famiglia non ricca, fu studente di letteratura, poesia e drammaturgia presso l’Università di Cracovia. Durante l’occupazione tedesca della Polonia, nel corso della seconda guerra mondiale, il futuro papa si preparò al sacerdozio e lavorò nel contempo in una cava di pietra e successivamente in un’industria chimica. Venne ordinato sacerdote nel 1946, laureandosi in seguito in teologia all’Angelicum di Roma e ottenendo un dottorato in filosofia presso l’università cattolica di Lublino; divenuto cappellano dell’università e docente di etica all’università di Cracovia e presso la facoltà di teologia dell’università di Lublino, nel 1958 venne nominato vescovo ausiliare di Cracovia.

Nominato arcivescovo di Cracovia nel 1964 e cardinale nel 1967, partecipò attivamente al concilio Vaticano II e tra il 1967 e il 1977 rappresentò il suo paese natale in cinque sinodi vescovili internazionali. L’elezione al soglio pontificio avvenne il 16 ottobre 1978; il papa neoeletto rappresentò la successione al breve pontificato di Giovanni Paolo I, in memoria del quale volle ereditare il nome. Tra le occorrenze biografiche della vita del pontefice spicca l’attentato alla sua vita perpetrato dall’estremista turco Ali Agca il 13 maggio 1981 e avvenuto mentre il papa faceva ingresso in piazza San Pietro; nonostante le ferite riportate, Wojtyla si ristabilì perfettamente.

Giovanni Paolo II è anche autore fecondo: ha pubblicato raccolte di poesie e, con lo pseudonimo di Andrzej Jawien, un’opera teatrale, La bottega dell’orefice (1960). Tra i numerosi scritti etici e teologici ricordiamo Amore e responsabilità (1969), Dei fondamenti del rinnovamento (1972) e Segno di contraddizione (1977). La sua prima enciclica, Redemptor Hominis (1979), indaga le connessioni tra la redenzione di Cristo e la dignità umana. Le encicliche successive concernono il potere della misericordia nella vita dell’uomo (1980), l’importanza del lavoro quale “via di santificazione” (1981), la posizione della Chiesa in Europa orientale (1985), le posizioni cattoliche circa il marxismo, il materialismo e l’ateismo (1986), il ruolo della Vergine Maria, fonte di unità cristiana (1987), gli effetti distruttivi della rivalità fra le potenze secolari (1988), la necessità di conciliare il capitalismo con la giustizia sociale (1991) e una dissertazione contro il relativismo morale (1993).

A partire dalla metà degli anni Novanta il pontefice ha compiuto visite pastorali in numerosi paesi, contribuendo alla restaurazione della democrazia e della libertà religiosa in Europa orientale, nella natia Polonia come in altri paesi dell’Est. Battendosi strenuamente contro il dissenso dottrinale sorto in seno alla Chiesa e contro gli orientamenti di pensiero eccessivamente aperti agli influssi della cultura secolare e alla contaminazione con correnti di pensiero contemporanee che secondo il suo parere possono condurre a posizioni eterodosse, ha riaffermato, sottolineando con autorevolezza il magistero pontificio, le dottrine tradizionali della Chiesa cattolica rispetto ad argomenti di attualità come l’omosessualità, l’aborto, i metodi di contraccezione artificiale e il controllo delle nascite, esprimendosi costantemente a favore del celibato sacerdotale e contro, ad esempio, il sacerdozio femminile, pur riconoscendo alla donna un ruolo preponderante nella Chiesa contemporanea. Il suo libro Varcare la soglia della speranza (1994) articola e ribadisce numerose posizioni che hanno caratterizzato il suo papato.

Delineando più precisamente le responsabilità personali e verso la Chiesa da parte dei laici, dei sacerdoti e dei membri di ordini religiosi, si è opposto alla partecipazione diretta all’attività politica e all’elezione a cariche politiche secolari dei sacerdoti, riconoscendo tuttavia il valore della partecipazione delle associazioni di matrice cristiana alla vita pubblica. I suoi primi passi in direzione dell’ecumenismo (vedi Movimento ecumenico) si sono rivolti verso le Chiese ortodosse e l’anglicanesimo piuttosto che verso il protestantesimo; le visite del papa in Palestina hanno anche sancito l’avvio di un dialogo interconfessionale che non riguardasse solo i cristiani, ma, cancellando il secolare pregiudizio negativo della Chiesa cattolica nei confronti degli ebrei, anche il popolo cui appartenne la figura storica di Cristo.

Eutanasia

luglio 25, 2008

Pratica di porre fine alla vita di un individuo senza dolore, detta anche “morte dolce”. È possibile distinguere diversi tipi di eutanasia: innanzitutto quella “collettivistica” o collettiva (cioè di più persone) e quella “individualistica” o individuale (che riguarda la singola persona). Forme di eutanasia collettivistica sono l'”eugenica”, con cui per migliorare la qualità della razza vengono eliminate persone portatrici di handicap, e l'”economica”, con cui sono soppresse persone anziane o comunque inutili nel processo economico per favorirne altre socialmente più utili. L’eutanasia individualistica, che consiste in genere nel porre fine alle sofferenze di una persona destinata comunque a morire, si distingue a propria volta in “attiva” e “passiva”.

Nell’eutanasia attiva si causa la morte della persona con un comportamento; in quella passiva, che si suddivide ulteriormente in “consensuale” e “non consensuale”, la morte costituisce una conseguenza di un comportamento passivo od omissivo, cioè di non azione. L’eutanasia passiva consensuale, anche detta “volontaria”, si ha quando una persona abbia espresso in modo chiaro e inequivoco la volontà di non sottoporsi a particolari trattamenti chirurgici o farmacologici; l’eutanasia passiva non consensuale si ha invece quando una persona non abbia espresso in vita la volontà di non essere curato, e la decisione se sottoporlo a particolari trattamenti medici rimane dunque al medico o ai familiari più stretti.

Cenni storici

L’eutanasia è una pratica antica, che si fa risalire ad alcune società dell’antichità dove era permessa per gli anziani. Nell’antica Grecia, così come a Roma, era infatti possibile praticarla in particolari situazioni: così scrissero Socrate, Platone e Plutarco, il quale riferì che a Sparta venivano soppressi i bambini che presentavano gravi difetti fisici. Con l’avvento delle organizzazioni religiose, l’eutanasia divenne tuttavia moralmente ed eticamente inaccettabile. Il cristianesimo, l’ebraismo e l’islamismo, ritenendo sacra la vita umana, condannarono qualsiasi forma di eutanasia. La condanna morale, emessa a livello religioso dalle principali confessioni, divenne quindi legale, trovando prima un’enunciazione nelle norme morali e quindi negli ordinamenti giuridici della quasi totalità degli stati.

Nei primi anni quarant’anni di questo secolo, in particolare nel 1935 in Gran Bretagna e nel 1938 negli Stati Uniti d’America, furono fondate delle organizzazioni a sostegno di un progetto di “liberalizzazione” dell’eutanasia. Condannando con fermezza giuridicamente e moralmente l’eutanasia collettivistica, tali organizzazioni propugnarono un ammorbidimento delle norme allora vigenti, che di fatto equiparavano l’eutanasia individuale all’omicidio, in modo da poter alleviare le sofferenze di malati terminali costretti a lunghe sofferenze e senza speranza alcuna di guarigione. Il consenso guadagnato nel corso di questi decenni è testimoniato dall’apertura che la legislazione di diversi paesi occidentali ha mostrato almeno nei confronti dell’eutanasia passiva consensuale e non consensuale.

Questioni legali

I problemi che restano aperti sono naturalmente molti. Riconoscere l’eutanasia individuale passiva non consensuale non significa infatti legittimare quella collettivistica, chiamata talvolta a giustificazione dello sterminio nazista, né implica il mettere alcuno nelle condizioni di decidere della vita di un’altra persona; è indubbio però che coloro i quali considerano sacra e inviolabile la vita, oltre che la libertà individuale, ritengano profondamente ingiusto lasciar decidere della vita di una persona, anche se sospesa tra la vita e la morte, a un’altra. Molti osservatori ritengono comunque che oggi, per quanto vietata, l’eutanasia individuale sia in segreto praticata in molte società, almeno in quei casi in cui ci si trovi di fronte a una persona condannata a soffrire e senza speranze di guarigione e soprattutto allorché la persona malata abbia in vita chiaramente espresso la volontà di non essere sottoposta a particolari trattamenti medici.

In Italia, dove non esiste una disciplina specifica sull’eutanasia, i princìpi religiosi del cristianesimo e i valori morali dominanti hanno spinto verso un’interpretazione giuridica restrittiva che ha di fatto equiparato l’eutanasia all’omicidio, o all’omicidio del consenziente (reato per il quale è prevista una pena minore) o nell’istigazione o nell’aiuto al suicidio; e che talvolta ha giudicato con pene severe anche il semplice rifiuto di fornire cure forse essenziali per il prolungamento della vita, negando così la possibilità di ricorrere spontaneamente all’eutanasia passiva consensuale (peraltro lecita) e spingendo invece verso il suicidio.

In altri paesi come l’Olanda, dove è da tempo possibile optare per l’eutanasia passiva, il dibattito sull’ammissibilità dell’eutansia attiva è sempre più vivace. Proprio in Olanda la Royal Dutch Medical Association, l’associazione dei medici olandesi, ha rivisto nel 1995 la normativa che regola la pratica medica, sottolineando l’importanza della responsabilizzazione del paziente, che generalmente pone fine da sé alla sua vita assumendo un’overdose di farmaci prescritta dal medico (“suicidio assistito”), ma prevedendo anche che il medico stesso possa prestare assistenza (e garantendogli, se ha seguito le procedure previste dall’Associazione, la tutela sul piano legale). Un altro stato dove è stata recentemente introdotta (1996) un’innovativa legislazione che consente il suicidio assistito da un medico è l’Australia.

Questioni mediche

La classe medica è da sempre al centro delle controversie riguardanti l’eutanasia. I governi, i gruppi religiosi e gli stessi medici concordano sì sul fatto che i professionisti della salute non debbano necessariamente utilizzare “misure straordinarie” per prolungare la vita alle persone che soffrono di malattie terminali, e che la decisione se utilizzare o meno mezzi straordinari dovrebbe spettare alla famiglia del paziente, ma è proprio la labilità del confine fra misura ordinaria o straordinaria a rendere difficile la valutazione. Ausili della tecnologia moderna come i respiratori artificiali, che rendono oggi possibile mantenere in vita le persone anche quando il coma è irreversibile e le funzioni cerebrali appaiono irrimediabilmente danneggiate, possono infatti essere ritenuti da un medico una misura ordinaria (perché vista nell’ottica del progresso scientifico) e da un familiare straordinaria (ma può accadere anche il contrario). A giudizio dei sostenitori dell’eutanasia prolungare la vita di una persona significa in casi come questi infliggere ulteriori sofferenze fisiche o deperimenti organico-fisici da cui potrebbe anche non essere possibile riprendersi, provocare una grande sofferenza ai familiari del paziente e causare una notevole spesa per il servzio sanitario (fattore di cui bisogna purtroppo tenere sempre più conto). Coloro che sono contrari ritengono invece che esista un reale pericolo di abuso dell’eutanasia, da parte dei medici che, a causa del crescente successo della medicina nel trapianto di organi, potrebbero violare i diritti del donatore morente per preservare in condizioni ottimali gli organi da espiantare.

Per regolamentare aree così delicate e complesse della vita umana sono in corso di elaborazione nuove definizioni giuridiche e professionali di morte e di responsabilità medica in relazione a essa. Fra queste, la più importante è per ora quella di “morte cerebrale” (cessazione dell’attività elettrica del cervello), il preludio irreversibile della morte dell’individuo, riconosciuta nella maggior parte dei paesi come il momento in cui cessare, con il consenso della famiglia, di fornire le cure che tengono in vita l’individuo stesso.

India

luglio 25, 2008

(Nome ufficiale, Unione indiana; hindi, Bharat Juktarasha), repubblica democratica federale dell’Asia meridionale, membro del Commonwealth, forma, con Pakistan e Bangladesh, il subcontinente indiano. Comprendente l’intera penisola indiana e parti del continente asiatico, confina a nord con l’Afghanistan, il Tibet, il Nepal e il Bhutan; a sud con lo stretto di Palk e il golfo di Mannar, che la separano dallo Sri Lanka, e con l’oceano Indiano; a ovest con il mar Arabico e il Pakistan; a est con la Birmania (Myanmar), il golfo del Bengala e il Bangladesh, il quale isola quasi del tutto l’India nordorientale dal resto del paese. Compreso lo stato di Jammu e Kashmir (la cui situazione non è ancora stata definita), l’India ha una superficie di 3.287.263 km2; la capitale è New Delhi.

Territorio

 

 

L’India può essere suddivisa in quattro principali regioni fisiche: l’Himalaya, le pianure fluviali settentrionali, l’altopiano del Deccan e i Ghati Orientali e Occidentali.

Il sistema montuoso dell’Himalaya si estende per circa 2400 km lungo i confini settentrionali e orientali del subcontinente indiano, separandolo dal resto dell’Asia. È il più elevato e recente sistema montuoso del mondo, e uno dei più attivi. All’interno dei confini indiani la catena himalayana raggiunge le massime altitudini nel Kanchenjunga (8598 m), terza cima del mondo dopo l’ Everest e il K2, il Nanga Parbat (8126 m), il Nanda Devi (7817 m) e il Kamet (7756 m).

A sud, parallelamente all’Himalaya, è situata la regione delle pianure fluviali, una vasta fascia di basseterre; si tratta della più estesa pianura alluvionale della Terra, comprendente gran parte della zona bagnata dai fiumi Indo, Gange e Brahmaputra. Grazie all’abbondante presenza di acque e di ricchi suoli è oggi la zona più fertile e densamente popolata dell’India, che sviluppò qui le sue prime civiltà. Queste pianure si estendono da ovest a est dal confine con il Pakistan al confine con il Bangladesh, per proseguire nell’estrema zona nordorientale del paese attraverso uno stretto corridoio di terra nei pressi di Darjeeling.

La zona centro-occidentale delle pianure indiane è nota come Pianura gangetica in quanto attraversata dal fiume Gange e dai suoi affluenti, che discendono dai pendii meridionali della catena himalayana. Gli stati nordorientali di Assam e Arunachal Pradesh sono bagnati dal fiume Brahmaputra e dai suoi tributari, le cui sorgenti si trovano nei rilievi settentrionali dell’Himalaya; il Brahmaputra entra poi nel Bangladesh a nord del gruppo montuoso del Khasi Jaintia. Il fiume Indo nasce nel Tibet, scorre a ovest attraverso lo stato di Jammu e Kashmir ed entra in Pakistan. Lungo il confine sudoccidentale con il Pakistan le pianure lasciano il posto al Gran Deserto Indiano, o deserto del Thar, e alle paludi salmastre note come Rann of Kutch (Pantano di Kutch).

A sud dell’area pianeggiante si trova l’altopiano del Deccan, un vasto tavolato che occupa gran parte dell’India peninsulare. Per lo più roccioso e dall’andamento irregolare, esso è diviso in regioni naturali da basse catene montuose e da valli profonde. La sua altitudine varia dai 305 ai 915 m, sebbene in alcuni punti raggiunga anche i 1220 m. Il Deccan è delimitato da due sistemi montuosi periferici conosciuti come Ghati Orientali e Ghati Occidentali.

I Ghati Occidentali, alti in media circa 915 m, formano ripide scarpate che dominano il mare Arabico e digradano nella fertile costa del Malabar. I Ghati Orientali, alti mediamente circa 460 m, sono separati dal golfo del Bengala da una stretta pianura costiera, la costa del Coromandel. I due allineamenti montuosi si congiungono nel punto più meridionale del Deccan, nei pressi di Bangalore.

Clima

 

A causa della posizione geografica, della struttura peninsulare e dell’insolita conformazione del territorio, l’India presenta condizioni climatiche ampiamente diversificate a livello sia regionale sia stagionale. Le marcate escursioni termiche sono per lo più limitate ai rilievi dell’Himalaya mentre il resto del paese, fatta eccezione per le regioni più montuose, è caratterizzato da un clima tropicale per lo più uniforme. Le variazioni stagionali, determinate dai monsoni che soffiano da sud-ovest e nord-est, influiscono in modo notevole sulla temperatura, sul grado di umidità e sulle precipitazioni in tutto il subcontinente. Si possono in generale distinguere due stagioni, una piovosa e una secca. La stagione in cui si concentrano le piogge, generalmente tra giugno e novembre, è caratterizzata dal monsone di sud-ovest, un vento carico di umidità proveniente dall’oceano Indiano e dal mar Arabico, che all’inizio di giugno investe la costa occidentale della penisola per propagarsi gradualmente nell’intero paese. In questa stagione, soprattutto da giugno a settembre, si verificano abbondanti precipitazioni che nei Ghati Occidentali spesso raggiungono i 3175 mm, per superare i 10.000 nel Khasi Jaintia dell’India nordorientale e raggiungere una media annua di circa 1500 mm sui versanti meridionali dell’Himalaya. Quando il monsone di sud-ovest non si manifesta, come accade talvolta, si possono verificare gravi condizioni di siccità. La stagione fredda del monsone di nord-est, dall’inizio di dicembre all’inizio di marzo, è solitamente caratterizzata da un clima estremamente asciutto, nonostante si verifichino talvolta violenti temporali sulle pianure settentrionali e abbondanti nevicate sull’Himalaya. Il periodo peggiore della stagione calda, che inizia verso la metà di marzo e prosegue fino al manifestarsi del monsone di sud-ovest, si verifica nel mese di maggio, con temperature che, nella zona centrale del paese, possono superare i 50 °C. La temperatura media annua è di circa 26 °C nei pressi di Calcutta, di circa 28 °C nella regione costiera centro-occidentale e nella zona di Madras.

Flora e fauna

Nelle zone aride ai confini con il Pakistan la vegetazione è rada e per lo più erbacea: sono diffuse soprattutto specie arbustive anche se in alcune aree crescono palme e bambù. La pianura gangetica, grazie alla maggior presenza d’acqua, ospita una rigogliosa vegetazione con molte specie di piante, soprattutto nella zona sudorientale dove crescono la mangrovia e il sal (Shorea robusta).

Sulle vette himalayane si trovano diverse varietà di flora artica, mentre le pendici più basse, ricoperte di foreste, ospitano numerose specie di piante subtropicali, in particolare orchidacee. Nell’Himalaya nordoccidentale predominano le conifere, specialmente il cedro e il pino, mentre in quella orientale si ha una vegetazione tropicale e subtropicale, con querce e magnolie. La costa del Malabar e le pendici dei Ghati Occidentali, grazie alle abbondanti precipitazioni, sono zone fittamente boschive, con una prevalenza di sempreverdi, bambù e alberi dal legno pregiato, come il teak. Nelle pianure paludose e lungo le pendici dei Ghati Occidentali vi sono ampi tratti di giungla impenetrabile. La vegetazione del Deccan è meno lussureggiante, ma in tutta la penisola si possono trovare macchie di bambù, palme e alberi decidui.

In India vive una grande varietà di animali. Sono ben rappresentati i felini, con la tigre (protetta perché in pericolo di estinzione), la pantera e, nel Deccan, il ghepardo; all’interno del parco nazionale Sasan Gir, nel Gujarat, sono presenti inoltre i leoni.

L’elefante indiano abita le pendici nordorientali dell’Himalaya e le remote foreste del Deccan. Diffusi sono anche il rinoceronte, il gaviale, l’orso bruno, il lupo, lo sciacallo, il bufalo, il cinghiale, il toporagno, numerose specie di scimmie, l’antilope e il cervo. Sono presenti inoltre numerose specie di serpenti molti dei quali velenosi, come il ben noto cobra. Per quanto riguarda l’avifauna si ricordano pappagalli, pavoni e uccelli acquatici come il martin pescatore e l’airone. Le acque fluviali abbondano di pesci.

Popolazione

 

In base al censimento del 1993 la popolazione dell’India, che rappresenta circa il 16% di quella mondiale, è di 903.159.000 abitanti, circa il 32% in più rispetto al 1981; la densità è di circa 275 abitanti per km2. Più del 70% degli abitanti del paese vive in zone rurali e un terzo vive al livello, o addirittura al di sotto, della soglia di povertà stabilita dai parametri delle Nazioni Unite, contro un esiguo 3% di famiglie che gode di un reddito annuo superiore ai 2500 dollari USA.

Composizione etnica

A causa della grande varietà di etnie e culture che si sono stabilite nel corso dei secoli nel territorio del subcontinente, è molto difficile individuare con esattezza l’origine delle diverse popolazioni che abitano l’India attuale anche se si può affermare che appartengano a tre differenti razze: europoide, australoide e mongoloide.

Circa il 7% degli abitanti fa parte delle cosiddette tribù ufficialmente riconosciute, che sono complessivamente più di 300 e, oltre a essere molto differenziate al loro interno, hanno una connotazione etnica e culturale peculiare rispetto al resto della popolazione indiana.

Quest’ultima presenta caratteri prevalentemente europoidi, con notevoli differenze nella colorazione della pelle; tratti mongoloidi caratterizzano le tribù che vivono tra le colline nell’estremo nord, ad esempio i naga, mentre alcuni gruppi tribali presentano anche caratteri australoidi, come i santal nel Bengala Occidentale.

Città principali

 

Oltre alla capitale, New Delhi, le principali città dell’India sono Bombay (9.925.891 abitanti, 1991), la più popolata del paese; Ahmadabad e Bangalore, importanti nodi ferroviari; Calcutta; Delhi; Hyderabad, noto centro dell’artigianato; Kanpur, sede dell’industria del cuoio; la città portuale di Madras; Pune; Nagpur; Lucknow; e, infine, Jaipur.

Lingua e religione

In India vengono utilizzate più di 1600 tra lingue e dialetti; quelle ufficiali sono l’hindi, parlato da circa il 30% della popolazione, e l’inglese ma la Costituzione riconosce anche 17 lingue locali, tra cui il telugu, il bengali, il marathi, il tamil, l’urdu, il gujarati, il kannada e il malayalam. La maggior parte delle lingue diffuse nelle aree settentrionali del paese (urdu, hindi e bengali, ma anche punjabi e assamese) appartengono al ceppo indoeuropeo e derivano dal sanscrito, l’antica lingua con cui fu stilato quel vasto corpo di scritture religiose e laiche che costituisce il nucleo della letteratura indiana classica (vedi Letteratura sanscrita), e ora utilizzato solo in alcuni riti religiosi. Per contro, le lingue dravidiche parlate al sud (telugu, kannada, malayalam) traggono le loro origini dal tamil che, pur utilizzato anticamente a livello letterario, diversamente dal sanscrito è ancor oggi molto diffuso. Il manipuri (parlato nello stato del Manipur, nell’estremo nord-est del paese) è l’unica lingua riconosciuta dalla Costituzione ad appartenere al ceppo sinotibetano. Vedi anche Lingue indiane.

I principali gruppi religiosi sono costituiti da induisti (che rappresentano circa l’80% della popolazione), musulmani (11%), cristiani (2,3%) e sikh (1,9%). Altre importanti minoranze sono rappresentate dai buddhisti, dai gianisti e dai parsi. La crescita del nazionalismo e del fondamentalismo religiosi nel corso degli anni Ottanta e Novanta ha fomentato in alcune zone del paese tensioni di natura politica e sociale, manifestandosi talora in forma violenta, come nel caso delle rivolte avvenute nel Punjab nel 1992 e nel 1993.

Istruzione

 

Dopo aver ottenuto l’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1947, l’India tentò di sviluppare un sistema scolastico unico e integrato, ma l’acculturazione della numerosa e giovane popolazione indiana, con la complessità sociale e religiosa che la caratterizza, non fu opera facile. All’istruzione furono sottratti molti fondi, destinati alla lotta contro la povertà, la mancanza di derrate alimentari e la sovrappopolazione. Ciò nonostante sono stati intrapresi, e largamente realizzati, cambiamenti radicali e strutturali e dall’epoca dell’indipendenza il numero delle scuole e degli allievi è notevolmente cresciuto.

Dopo le riforme degli anni Ottanta il sistema scolastico, quasi interamente gestito dai governi dei singoli stati, prevede dieci anni di istruzione primaria (gratuita ma non obbligatoria) e media, due anni di secondaria e tre di università; è stato inoltre istituito un programma nazionale di alfabetizzazione degli adulti. In base al censimento del 1991, il tasso di alfabetizzazione della popolazione era di circa il 52%, contro il 43% del decennio precedente.

Cultura

 

Lo sviluppo artistico dell’India antica è stato ampiamente influenzato dal pensiero religioso, dapprima buddhista, poi anche induista. Al periodo antico (o classico) si possono ascrivere manifestazioni artistiche come quelle del Gandhara (con la sua caratteristica mescolanza di elementi ellenici e indiani), di Madhura, del raffinato periodo gupta, gli affreschi di Ajanta, i bassorilievi di Mahabalipuram, il tempio di Nataraja di Chidambaram e molte altre.

Un relativo declino dell’arte e della cultura classiche seguì la fine del regno di Harsha nell’India settentrionale (VII secolo), quando cominciarono a svilupparsi nuove forme socio-politiche, sebbene il sud del paese, sotto regni quali quelli di Pallava e, più tardi, di Chola, stesse vivendo un momento di pieno splendore sia artistico sia architettonico. Nei secoli XI e XII, dopo un periodo di grande incertezza e cambiamenti, si verificò nello sviluppo culturale della zona settentrionale del paese un rivolgimento determinante, causato dall’introduzione dell’Islam da parte di popoli invasori provenienti dall’Asia centrale. Tale fede, infatti, con la sua cosmogonia lineare di stampo occidentale e il rifiuto di ogni forma di idolatria, era completamente differente dall’induismo e dalle altre religioni orientali.

Dopo diversi secoli di guerre, smembramenti e repressioni sotto il dominio turco e mongolo, intorno alla metà del XVI secolo la dinastia Moghul fondata da Baber, un discendente del mongolo Tamerlano, conquistò l’intera India settentrionale. Sotto i grandi imperatori di questa dinastia come Akbar, il paese conobbe un nuovo periodo di splendore artistico, con nuovi stimoli provenienti dall’influenza persiana. Durante l’epoca moghul furono edificate alcune delle più imponenti opere architettoniche indiane, come ben testimonia il Taj Mahal ad Agra; fiorirono l’illustrazione dei manoscritti, la miniatura, le arti decorative e la musica e rimase viva una forte tradizione regionale di spettacolo popolare.

Sotto il governo britannico si perse molto di questo fermento creativo; allo sviluppo del nazionalismo si accompagnò una ripresa di alcuni aspetti del pensiero e della cultura indiani e nel XX secolo si è tentato non solo di far rifiorire alcune arti quasi scomparse ma anche di dar nuova vita alle forme più antiche.

Religione

 

L’India è attualmente un paese laico che ha tradizionalmente assorbito e dato origine a diverse confessioni e sette religiose. La maggioranza degli indiani, tuttavia, è oggi di religione induista, il che si riflette in molti aspetti della cultura comune. L’induismo stesso, nel corso dei secoli, ha assimilato e sviluppato molti diversi sistemi di pensiero, dalla filosofia Advaita di Shankara al movimento religioso Bhakti.

L’esistenza di significative minoranze religiose accanto alla fede predominante non è sempre stata pacifica; i contrasti tra induisti e musulmani e tra induisti e sikh, spesso fomentati da cause non legate alla religione, hanno in passato provocato numerose vittime. Un considerevole consenso popolare sostiene attualmente il movimento Ramajanmabhoomi: le sue rivendicazioni affinché fosse edificato un tempio induista sul preteso luogo di nascita di Rama ad Ayodhya, hanno scatenato di fatto la distruzione da parte di una folla di seguaci della moschea Babri Masjid, che si riteneva fosse stata costruita su un preesistente tempio induista.

Tali sviluppi costituiscono una seria minaccia per il futuro dello stato laico in India, anche se si potrebbe sostenere che questo fenomeno di cosiddetto “fondamentalismo” induista (una contraddizione in termini, poiché nell’induismo non sono stabiliti principi fondamentali) rappresenti un tentativo di creare un’unica cultura nazionale a partire da una molteplicità di tradizioni. Attraverso i mass media si è diffuso recentemente un altro sistema di valori che, in certa misura, ha contribuito a indebolire il richiamo della religione: il consumismo della società occidentale.

Le caste

La costituzione indiana esprime il proposito di sradicare l’antico sistema della casta che per secoli ha negato ogni possibilità di progresso sociale agli strati inferiori del sistema, i cosiddetti “intoccabili” (o Harijans, “figli di Dio”, come furono chiamati da Gandhi; il termine attualmente impiegato è Dalit). All’indomani dell’indipendenza furono intraprese importanti misure per promuovere attivamente l’istruzione e migliorare le condizioni di vita di queste classi marginali. Fu adottato un sistema di discriminazione positiva in base al quale fu loro assegnata una percentuale significativa dei posti nelle istituzioni universitarie e professionali; attualmente, malgrado il pregiudizio sia rimasto vivo, persone appartenenti alle caste più basse sono presenti ormai in tutti i livelli sociali e ricoprono in alcuni casi importanti ruoli in veste di scienziati, giudici o uomini politici. Con la diffusione della cultura consumistica che ha avuto luogo in questi ultimi anni il vero fattore determinante della condizione sociale, più che la famiglia o la tradizione, è ormai divenuta la ricchezza materiale; l’appartenenza alla casta comincia quindi a perdere d’importanza e si celebrano numerosi matrimoni tra membri di diversa casta, specialmente tra la borghesia urbana.

In ambito politico, alcuni partiti e organizzazioni fondati sul sistema delle caste sono stati attivi nel rivendicare i diritti e la tutela degli interessi delle rispettive comunità.

Per ulteriori approfondimenti sulla cultura del paese, vedi Danza classica indiana; Teatro indiano; Arte e architettura indiana; Musica indiana; Filosofia indiana; Letteratura indiana.

Economia

L’India ha un’economia di tipo misto in cui il governo, sia a livello federale sia nei singoli stati, svolge un importante ruolo di regolazione e pianificazione oltre a essere titolare di numerose imprese pubbliche. L’intervento su larga scala dello stato nell’economia risale agli anni Cinquanta e all’impostazione nazionalistica e socialista del primo governo che seguì all’indipendenza, guidato da Jawaharlal Nehru, che intese promuovere la crescita e lo sviluppo economico per far fronte al rapido incremento della popolazione. Il primo piano economico quinquennale fu varato nel 1951; nei decenni che seguirono lo stato nazionalizzò alcuni settori chiave dell’economia, sostenendone altri con forti investimenti, e sottopose il settore privato a un ampio controllo. Vennero erette barriere tariffarie e doganali allo scopo di proteggere le industrie nazionali e furono avviati alcuni programmi di riforma agraria.

I risultati sono stati generalmente positivi, specie se misurati in rapporto alla maggioranza dei paesi in via di sviluppo. Eccezion fatta per i periodi di grave siccità verificatisi nel 1979 e nel 1987, si è registrata una costante crescita economica; l’inflazione e il debito pubblico sono stati generalmente tenuti sotto controllo; la produzione agricola è significativamente cresciuta, il che ha permesso di allontanare lo spettro delle grandi carestie; sono state gettate le basi di un moderno stato industriale e l’India è oggi il nono produttore mondiale di acciaio. Tali progressi sono stati tuttavia insufficienti e non hanno avuto che effetti marginali sul reddito della maggioranza della popolazione.

Nel 1991 è divenuto primo ministro P.V. Narasimha Rao il quale ha attuato una significativa riforma della politica economica allentando il controllo sul settore privato e riducendo il monopolio statale in alcuni campi, ad esempio nel trasporto aereo. È stato introdotto un regime di economia aperta attraverso la riduzione dei controlli tariffari e la promozione degli investimenti stranieri.

Questi cambiamenti a livello nazionale si sono ripercossi nei singoli stati, i quali esercitano un importante controllo sulla politica interna e recepiscono in modi diversi la politica nazionale. In alcuni, ad esempio nel Bengala Occidentale, il controllo del governo sull’economia è particolarmente marcato; altri, come il Maharashtra, hanno sempre adottato un atteggiamento più liberista. A partire dal 1991, tuttavia, quasi tutti gli stati hanno aperto le frontiere agli investimenti stranieri, ridotto il controllo sul settore privato e attuato alcune privatizzazioni.

Agricoltura

 

Il sostentamento di più di due terzi della popolazione indiana dipende dall’agricoltura, che partecipa per il 35% alla formazione del PIL. La maggior parte dei poderi ha estensioni molto limitate e più di un terzo degli appezzamenti è addirittura al di sotto del livello di sussistenza di una famiglia di contadini. La coltura più estesa è il riso, che costituisce l’alimento principale di gran parte della popolazione, cui seguono il frumento, la canna da zucchero, il tè, il cotone e la juta. Altre importanti colture sono gli ortaggi, il melone, il sorgo, il miglio, il mais, l’orzo, i ceci, la banana, il mango, la gomma, il caffè, i semi di lino, le arachidi e diverse spezie.

L’allevamento del bestiame, in particolare bovini, bufali, cavalli e muli, costituisce un aspetto centrale dell’economia agricola. All’inizio degli anni Novanta in India erano presenti circa 193 milioni di capi, un primato mondiale. Bufali, cavalli e muli sono per lo più impiegati nei lavori agricoli, anche se ormai solo una ristretta parte della popolazione, specialmente al nord, segue il precetto induista che vieta il consumo di carne bovina. A causa della scarsità di pascoli e di forniture d’acqua, il bestiame indiano è comunque di bassa qualità.

Nonostante gran parte dell’agricoltura venga ancora condotta con metodi tradizionali, all’indomani dell’indipendenza sono state introdotte alcune importanti trasformazioni tecnologiche. Le zone che usufruiscono dei sistemi di irrigazione finanziati dal governo si sono enormemente estese, e nei primi anni Novanta le superfici irrigate rappresentavano quasi il 45% dell’intera superficie coltivata. La richiesta di fertilizzanti chimici e di sementi ad alto rendimento è significativamente aumentata, soprattutto in seguito alla molto reclamizzata “Rivoluzione Verde” degli anni Sessanta e dei primi anni Settanta, di cui hanno beneficiato soprattutto i ricchi coltivatori di frumento degli stati dell’Uttar Pradesh e del Punjab.

Circa il 23% del territorio complessivo indiano è ricoperto di foreste, il cui sfruttamento a fini commerciali non è tuttavia molto sviluppato e interessa per lo più le regioni montuose settentrionali, l’Assam e le regioni confinanti con l’Himalaya. Le foreste, tuttavia, forniscono legna e carbone combustibili oltre che preziosi frutti, noci, fibre, oli, gomme e resine.

Pesca

Sebbene il suo sfruttamento commerciale rimanga in gran parte limitato, la pesca rappresenta un’attività vitale per molte regioni, come ad esempio il delta del Gange (nel Bengala) e l’area costiera sudoccidentale. Recentemente il governo ha tentato di promuovere la pesca d’alto mare costruendo impianti di lavorazione e assumendosi l’onere dell’assicurazione dei pescherecci. Quasi la metà del pescato nazionale proviene dagli stati del Kerala, del Tamil Nadu e del Maharashtra.

Risorse energetiche e minerarie

L’India è tra i principali produttori mondiali di minerali di ferro, carbone e bauxite; importante è anche l’estrazione di manganese, mica, ilmenite, rame, petrolio, amianto, cromite, grafite, fosfati naturali, zinco, oro e argento. Questa ricchezza mineraria ha costituito, dopo l’ottenimento dell’indipendenza e la nazionalizzazione avvenuta negli anni Cinquanta, un importante fattore dello sviluppo economico, consentendo l’avvio di un diversificato settore industriale.

Industria

L’India può vantare un settore industriale assai diversificato che contribuisce per circa un quarto alla formazione del PIL. La maggior parte della produzione è realizzata in impianti moderni, in particolare per quanto riguarda l’industria siderurgica. In termini di occupazione, tuttavia, rimangono molto importanti le piccole aziende a conduzione familiare, per lo più artigianali. Il settore tessile, specialmente quello cotoniero, è tra i più antichi e importanti. Di rilievo sono anche le industrie per la lavorazione del tè e dei cereali, gli oleifici, gli zuccherifici, l’industria petrolchimica e della carta, la produzione di apparecchiature elettriche ed elettroniche, di prodotti chimici, la lavorazione della pelle e dei metalli. Negli ultimi anni si è considerevolmente sviluppato anche il settore dell’informatica, in particolare la produzione di software. Bangalore, nell’India meridionale, è stata definita “la Silicon Valley indiana”.

Flussi monetari e commercio

L’unità monetaria è la rupia indiana, divisa in 100 paise; la Banca centrale indiana, fondata nel 1934 e nazionalizzata nel 1949, ha funzioni di banca centrale ed è l’unica autorizzata a stampare moneta. Successive nazionalizzazioni hanno reso di proprietà del settore pubblico la maggioranza degli istituti di credito commerciale.

A causa del forte protezionismo attuato ancora in epoca recente, il volume del commercio estero è stato molto contenuto in rapporto alle dimensioni e alla varietà dell’economia indiana. Oltre a ciò si è registrato un costante deficit nella bilancia commerciale dovuto alle importazioni di petrolio, materie prime, beni di consumo, gioielli, prodotti chimici e fertilizzanti, e aggravato da una diffusa attività di contrabbando. L’India esporta una varietà di prodotti, principalmente tessili, capi di vestiario, gemme e gioielli, articoli in pelle, tè, apparecchiature meccaniche e prodotti chimici di base. Nel 1990 circa il 12% delle esportazioni indiane annue era diretto agli Stati Uniti. Importanti scambi avvengono inoltre con la Germania, il Giappone, la Gran Bretagna, l’Arabia Saudita, il Belgio e i paesi del Commonwealth britannico.

Trasporti

All’epoca dell’indipendenza nel 1947, l’India poteva vantare, rispetto alle altre colonie, una rete di comunicazioni tra le più sviluppate, in particolare il sistema ferroviario realizzato sotto il dominio britannico. A partire da questa eredità si sono poi sviluppate le comunicazioni stradali e un’estesa rete di trasporti aerei interni. Il trasporto delle merci continua tuttavia a essere assicurato dalla vasta rete ferroviaria di proprietà statale, la cui lunghezza totale raggiungeva nei primi anni Novanta i 62.458 km, di cui il 17% di ferrovie elettrificate. La rete stradale misura oltre 2 milioni di km, circa la metà dei quali asfaltata o pavimentata. Le compagnie di aviazione civile sono state nazionalizzate nel 1953; Air India assicura i servizi internazionali e Indian Airlines quelli interni e regionali.

Ordinamento dello stato

 

In base alla Costituzione adottata nel 1949 e ai suoi successivi emendamenti, l’India è una repubblica democratica indipendente nell’ambito del Commonwealth. Il governo ha struttura federale e il paese è costituito di un’unione di stati (25) e di territori (7) amministrati dal potere centrale.

Capo dello stato è il presidente che, eletto per cinque anni da un collegio formato da membri del Parlamento nazionale e delle Assemblee dei singoli stati, è rieleggibile. Questi, pur avendo un ruolo perlopiù nominale, ha la facoltà di designare il primo ministro che presiede il governo, rappresentante il potere esecutivo. Il potere legislativo, al quale il governo deve rendere conto, è affidato al Parlamento, composto da due camere: la Lok Sabha (o Camera del popolo), in carica cinque anni e formata da 543 membri eletti a suffragio universale diretto e da due membri della comunità angloindiana nominati dal presidente; e la Raiya Sabha (o Consiglio degli stati), che consta di 250 membri eletti dalle Assemblee degli stati (salvo 12, nominati dal presidente), un terzo dei quali viene rinnovato ogni due anni.

Il potere giudiziario è gestito da un sistema di tribunali nazionali al vertice del quale si trova la Corte suprema; l’indipendenza dei giudici, designati dall’esecutivo, è garantita da diversi meccanismi di salvaguardia. Per quanto riguarda i singoli stati ognuno, presieduto da un governatore nominato dal presidente dell’Unione, possiede un’Assemblea legislativa (eletta a suffragio universale per cinque anni) e un governo proprio, autonomi per quanto riguarda questioni locali, ordine pubblico, istruzione, sanità e agricoltura ma, per il resto, dipendenti dalle direttive nazionali.

Partiti politici

Il Congresso nazionale indiano, fondato nel 1885, guidò la lotta dell’India per l’indipendenza ed espresse in seguito tutti i primi ministri del paese, tranne nei periodi tra 1977 e il 1980 e tra il 1989 e il 1991. Nel 1969 un gruppo di membri del partito ne uscì per dar vita alla piccola Organizzazione del congresso nazionale indiano. In tutto il paese, ma soprattutto nel Bengala Occidentale e nel Kerala, fu inoltre viva l’influenza del Partito comunista indiano (CPI), costituitosi nel 1925, dal quale si staccò nel 1964 la fazione che fondò l’attuale Partito comunista indiano (marxista; CPI-M). All’inizio del 1977 il Congresso si unì con altri tre partiti, il Bharathya Jana Sangh, il Bharathya Lok Dal e il Partito socialista, dando vita al Partito Janata (del Popolo) che nelle elezioni del marzo 1977 ottenne quasi la metà dei seggi al Lok Sabha. Nel 1978 il Partito del Congresso tornò a dividersi quando Indira Gandhi fondò il Congresso nazionale indiano-Indira che nel 1981 fu riconosciuto dalla Corte suprema come il Partito del Congresso ufficiale. Questo vinse le elezioni parlamentari del 1980 e del 1984 ma perse la maggioranza nel 1989. I suoi principali avversari nelle elezioni del 1989 furono rappresentati dal Janata Dal e dal Partito Bharatiya Janata (BJP), un gruppo nazionalista indù di destra, formatosi in seguito a una scissione dal Janata Dal.

Storia

Preistoria

 

 

Le prime tracce di insediamenti umani nel subcontinente indiano risalgono a circa mezzo milione di anni fa. Una cultura di tipo mesolitico (vedi Età della pietra) si sviluppò fra l’8000 e il 6000 a.C. e Neolitico assistette alla nascita di attività quali l’agricoltura e l’allevamento. Alcune forme artistiche (pittura parietale e decorazione della ceramica), oltre all’inumazione di defunti in giare, sono testimonianze di questo periodo.

Intorno al 2500 a.C. si colloca l’origine della cosiddetta civiltà della valle dell’Indo caratterizzata dalla formazione di città pianificate (come Mohenjo-Daro) che avevano intensi scambi commerciali con la Mesopotamia.

Verso la metà del secondo millennio l’India fu ripetutamente invasa dagli arii, tribù di lingua indoeuropea che dalle catene nordoccidentali giunsero gradualmente a occupare il territorio a nord dei monti Vindhya e a ovest del fiume Yamuna. Questi popoli decretarono l’estinzione della civiltà dell’Indo e la nascita di una nuova forma di organizzazione sociale, basata sulla divisione in classi che porterà in seguito al sistema delle caste.

Dal periodo vedico all’epoca indù

Le informazioni relative a questo periodo provengono dai Veda, testi sacri composti fra il 1500 e l’800 a.C., che illustrano l’origine di alcuni caratteri fondamentali del sistema socio-religioso noto come induismo. Durante il primo millennio a.C. furono fondati sedici stati autonomi nella regione compresa tra l’Himalaya, il tratto meridionale del Gange, i monti Vindhya e la valle dell’Indo. Il più importante di questi regni fu quello di Magadha, nell’attuale Bihar, che intorno alla metà del VI secolo a.C. divenne lo stato dominante in India. All’epoca del sovrano Bimbisara (543-491 a.C.) si svolse nel Magadha la predicazione di Buddha e Nataputta Mahavira, fondatori rispettivamente del buddhismo e del giainismo.

L’India nordoccidentale fu conquistata dagli Achemenidi (518 ca. a.C.) e dai macedoni guidati da Alessandro Magno (326 a.C.); si formarono allora, nel Pakistan, piccoli regni detti indo-greci.

Dall’epoca dei Maurya all’invasione dei kusana

Nel 313 a.C. Chandragupta impose il suo controllo sul regno di Magadha. Fondatore della dinastia Maurya, nei dieci anni che seguirono Chandragupta estese la sua sovranità a gran parte del subcontinente. Di fronte alla nuova potenza militare Seleuco I, generale di Alessandro Magno e fondatore della dinastia dei Seleucidi, riuscì a stringere un’alleanza con Chandragupta dandogli in sposa sua figlia (305 a.C.).

La dinastia Maurya durò fino al 185 a.C. circa. Durante il regno di Aßoka, il più grande sovrano Maurya (273-232 a.C.), il buddhismo divenne la religione dominante. L’India era ormai una terra, con centri di cultura quali Nalanda e Takshasila che richiamavano studiosi dalla Cina e dal Sud-Est asiatico. Tra le dinastie successive a quella Maurya, quella Sunga durò oltre un secolo.

Durante il I secolo d.C. l’India settentrionale fu invasa dai kusana, una popolazione nomade proveniente dall’Asia centrale. I traffici lungo la via della seta e gli scambi commerciali con l’impero romano resero ricco e potente il dominio kusana che durò fino al III secolo d.C.

L’impero Gupta

 

Nel 320 d.C. il Magadha tornò a essere il centro di un vasto impero, quello della dinastia Gupta, che si estendeva su tutto il subcontinente a nord del fiume Narmada. I 130 anni della dinastia Gupta furono un’epoca di pace, di prosperità economica, intellettuale e culturale, soprattutto nell’arte, nella musica e nella letteratura. L’induismo, che da tempo aveva conosciuto un certo declino, tornò a rifiorire assorbendo alcune caratteristiche del buddhismo.

Verso la metà del VI secolo, l’impero Gupta decadde in seguito alle incursioni degli unni, provenienti dall’Asia centrale. Questi imposero il proprio dominio in India per quasi un secolo fino a una serie di sconfitte militari, soprattutto a opera dei turchi (565). Tra i discendenti odierni degli unni rimasti in India figurano alcuni gruppi tribali dello stato del Rajasthan. Un altro potente regno fu fondato nell’India settentrionale da Harsha, l’ultimo sovrano buddista della storia indiana, nel 606. Harsha impose il suo dominio sulla quasi totalità del territorio, tentando senza successo di conquistare anche il Deccan, ma dopo la sua morte il regno si divise in numerosi principati.

Le invasioni di musulmani e mongoli

Il sorgere in Asia occidentale di una nuova potenza, che trovava la sua forza unificatrice nell’Islam, mise fine al lungo periodo di conflitti interni. Il re turco-afghano Mahmud di Ghazni (che regnò dal 998 al 1030), di religione musulmana, estese il suo dominio da Lahore alla Persia. Dopo Mahmud, un altro grande sovrano musulmano fu Muhammad al-Ghuri il cui regno iniziò nel 1175; in dieci anni egli estese i suoi domini sull’intera pianura del Gange. Il dominio musulmano dell’India durò molti secoli, con le dinastie dei Mamelucchi (1206-1290), dei Khalgi (1290-1320) e dei Tughlaq (1320-1413).

Nel 1398, le contese dinastiche e la mancanza di una resistenza organizzata consentirono l’invasione dell’India da parte del conquistatore mongolo Tamerlano, che saccheggiò e distrusse Delhi, massacrando i suoi abitanti. Al suo ritiro dall’India, Tamerlano lasciò ciò che rimaneva dell’impero a Mahmud, l’ultimo dei Tughlaq. A questa dinastia succedette quella dei Sayyd (1413-1451) e dei Lodi (1451-1526).

L’impero Moghul

 

Nel 1526 Baber, un discendente di Tamerlano e Gengis Khan, invase con le sue truppe l’India e nel giro di pochi anni estese il suo dominio su un vasto territorio che doveva diventare il nucleo dell’impero Moghul. Akbar, il nipote di Baber, fu il più grande sovrano moghul. Il suo dominio, fra il 1556 e il 1605, si estese al Punjab, all’odierno Rajasthan, al Gujarat, al Bengala, al Kashmir e al Deccan. Nell’amministrazione del suo regno Akbar dimostrò una notevole capacità organizzativa, assicurandosi la fedeltà di centinaia di signori feudali; promosse inoltre il commercio, introdusse un equo sistema fiscale e favorì la tolleranza religiosa. L’impero Moghul conobbe il suo massimo splendore culturale sotto Shah Jahan, nipote di Akbar, il cui regno (1628-1658) coincise con l’età d’oro dell’architettura indoislamica che trovò la sua massima espressione nel Taj Mahal.

Il periodo di tolleranza religiosa si concluse con l’avvento al trono di Aurangzeb (1658-1707), che portò a termine la conquista del Deccan e ripristinò l’ortodossia islamica. Nei cinquant’anni seguenti la morte di Aurangzeb, l’impero Moghul precipitò nel caos politico, segnato dal rapido declino dell’autorità centralizzata. Avventurieri musulmani e induisti crearono regni e principati, mentre i governatori delle province imperiali costituirono grandi stati indipendenti.

La Compagnia delle Indie Orientali

 

Di questa situazione politica approfittarono i governi europei. Il commercio delle spezie aveva fatto crescere l’importanza economica dell’India fin dal XVI secolo. Al dominio dei portoghesi e poi degli olandesi era subentrato quello dei francesi e degli inglesi che avevano fondato importanti basi commerciali nel subcontinente indiano. La vittoria dell’Inghilterra sulla Francia assicurò nel 1757 il controllo del Bengala e del Deccan alla Compagnia delle Indie Orientali. La politica della compagnia mirò in seguito al consolidamento e all’estensione di queste acquisizioni. Nel 1773 l’istituzione, nata come impresa commerciale privata, divenne per volontà del parlamento un ente semi-ufficiale del governo britannico. La realizzazione della politica britannica in India fu facilitata dal declino ormai irreversibile dell’impero Moghul.

Il ricorso alla forza militare (unito alla corruzione dei governanti locali) fu il principale strumento di colonizzazione dell’India. La mancanza di unità fra i diversi regni e principati indiani favorì l’affermarsi del predominio britannico sull’intero subcontinente e sulle regioni confinanti, in particolare la Birmania (l’attuale Myanmar). Non mancarono tuttavia episodi di resistenza, il più importante dei quali fu la guerra combattuta dai Sikh (1845-1849) e terminata con l’annessione del Punjab da parte del governo britannico. L’unico tentativo di alleanza fra i centri del potere indiano fu quello capeggiato dai Maratti, e annullato dall’accordo di Salbai (1782). Dopo il Punjab vennero annessi i regni di Satara, Jaipur, Sambalpur, Jhansi e Nagpur, a opera del governatore James Ramsay, decimo conte di Dalhousie.

Le nuove acquisizioni britanniche accrebbero il malcontento della popolazione indiana che sfociò in una cospirazione su larga scala tra i sipahi, le truppe indiane al servizio della Compagnia delle Indie Orientali. Una rivolta generale, nota come l’Ammutinamento Indiano o dei Sipahi, scoppiò a Meerut, nei pressi di Delhi, il 10 maggio del 1857. In breve tempo gli ammutinati occuparono Delhi e altri centri strategici. I combattimenti continuarono fino al 1859, ma già nel giugno del 1858 i principali centri dell’insurrezione erano caduti.

A ciò seguì un periodo di brutali rappresaglie da parte delle truppe britanniche. Le autorità giudiziarie della Compagnia delle Indie Orientali arrestarono Bahadur Shah II e lo condannarono all’ergastolo, mettendo fine alla dinastia moghul. Grande risultato dell’Ammutinamento Indiano fu, nel 1858, il termine dell’amministrazione della Compagnia e il passaggio dell’India al governo diretto dalla corona britannica.

L’India britannica e il sorgere del nazionalismo

 

Molti abusi compiuti in India durante il dominio della Compagnia delle Indie Orientali vennero eliminati o ridotti quando il governo inglese assunse il controllo degli affari indiani. Furono attuate alcune importanti riforme in materia fiscale, giudiziaria, educativa e sociale; il sistema di opere pubbliche inaugurato da Dalhousie fu enormemente esteso. Il peggioramento delle condizioni di vita della popolazione indiana, l’insofferenza nei confronti del dominio coloniale e un crescente sentimento nazionalistico furono le conseguenze più gravi ereditate dal governo britannico. A fomentare la tensione politica contribuì una serie di terribili carestie. Nel 1876 il governo britannico, avallando la proposta di Benjamin Disraeli, proclamò la regina Vittoria imperatrice dell’India.

Tra la fine del XIX secolo e i primi dieci anni del XX, l’India fu attraversata da un crescente fermento sociale e politico. L’élite intellettuale indiana, in parte formatasi in Occidente, introdusse nel paese alcuni aspetti del pensiero europeo. Il nazionalismo indiano cominciò a rappresentare una seria minaccia per la posizione britannica nel paese. Nei decenni seguiti all’Ammutinamento Indiano erano sorte diverse associazioni per la lotta contro il dominio britannico, tra cui la più influente era il Congresso nazionale indiano, fondato nel 1885.

Il movimento di protesta di Gandhi

 

Dopo la prima guerra mondiale la lotta politica si intensificò. In risposta alla ripresa dell’attivismo nazionalista, il parlamento britannico approvò le leggi Rowlatt che sospendevano i diritti civili e introducevano la legge marziale nelle zone dove si erano verificati tumulti e rivolte, in questo modo provocando un’ondata di violenza e disordini. In quest’epoca di agitazioni Mohandas K. Gandhi, un riformatore sociale e religioso di fede induista, conosciuto tra i suoi seguaci con il nome di Mahatma (in sanscrito “grande anima”), invitò il popolo indiano a rispondere alla repressione britannica con la resistenza passiva (Satyagraha). Il movimento di protesta assunse proporzioni prossime all’insurrezione il 13 aprile 1919, proclamato da Gandhi giornata di lutto nazionale in seguito al massacro da parte di truppe britanniche di una folla pacifica di manifestanti disarmati ad Amritsar, nel Punjab (vedi Massacro di Amritsar).

Il movimento antibritannico, di conseguenza, tornò a intensificarsi. La lotta poggiò soprattutto sulla politica di non-cooperazione perseguita da Gandhi a partire dal 1920 che invitava a boicottare le merci, le corti di giustizia, le istituzioni scolastiche britanniche, a non cooperare alla vita politica e a rinunciare ai titoli britannici eventualmente detenuti. A giudizio delle autorità britanniche, quelle intraprese da Gandhi erano attività sediziose e tra il 1922 e il 1942 il leader indiano, con altri eminenti attivisti tra i quali Sarojini Naidu, fu più volte incarcerato.

L’ondata di nazionalismo indiano, che aveva ricevuto un notevole impulso dopo il primo arresto di Gandhi, raggiunse uno stadio critico nella primavera del 1930. Il 12 marzo, in seguito al rifiuto britannico di concedere all’India lo status di dominion, Gandhi annunciò che si sarebbe messo alla testa di una violazione di massa del monopolio governativo del sale. Questa fu compiuta, dopo una lunga marcia, presso il golfo di Khambhat, dove l’acqua del mare venne fatta bollire per ricavarne il sale. In tutta l’India vennero compiute azioni analoghe con un’efficacia e un impatto simbolico molto profondi. All’arresto di Gandhi seguirono manifestazioni e tumulti a Calcutta, a Delhi e in altre città, per far fronte ai quali il governo ricorse ad arresti di massa; prima di novembre vennero incarcerati circa 27.000 nazionalisti indiani.

Infine, nel marzo del 1931, il governo britannico concordò una tregua con Gandhi che era stato rilasciato alcuni mesi prima insieme ad altri prigionieri politici, tra cui Jawaharlal Nehru, segretario del Congresso nazionale indiano e suo più stretto compagno di lotta. Nel frattempo la Lega musulmana, temendo un futuro dominio degli induisti, aveva avanzato la richiesta di privilegi speciali all’interno dell’eventuale dominion. Ne risultò una grave controversia, che sfociò in veri e propri scontri tra induisti e musulmani in molte comunità del paese. Ad aggravare i conflitti interni si aggiunse la grande crisi del 1929, che annientò l’economia indiana.

Nel 1935, il parlamento britannico approvò il Government of India Act (Legge sul governo dell’India), che istituiva organi legislativi autonomi nelle province dell’India britannica e prevedeva la protezione della minoranza musulmana. La legge istituiva inoltre un’assemblea legislativa nazionale bicamerale e un organo esecutivo dipendente dal governo britannico. Seguendo l’orientamento di Gandhi, il popolo indiano approvò queste misure che entrarono in vigore il primo aprile 1937; ciò nonostante, molti membri del Congresso nazionale indiano continuarono a richiedere la completa indipendenza del paese.

Allo scoppio della seconda guerra mondiale il viceré dell’India, Victor Hope, dichiarò guerra alla Germania in nome dell’India. Questo passo, intrapreso in conformità con la costituzione del 1937 ma senza consultare la leadership indiana, diede nuovo impulso alle richieste di autonomia.

Il movimento di disobbedienza civile riprese nell’agosto del 1942. Gandhi, Nehru e migliaia di sostenitori furono arrestati, e il Congresso nazionale indiano fu dichiarato illegale. Approfittando della situazione interna indiana, e con l’aiuto del nazionalista estremista Subhas Chandra Bose, i giapponesi intensificarono le operazioni militari dando inizio nel marzo 1944 all’invasione dell’India, lungo un fronte di 322 km al confine con la Birmania, venendo gradualmente respinti da truppe anglo-indiane.

Nel giugno 1945 l’India aderì alle Nazioni Unite. Tre rappresentanti del governo britannico tentarono nuovamente di giungere a un accordo con i leader indiani nella primavera del 1946, ma i negoziati fallirono. Nel mese di giugno il viceré britannico Archibald Wavell annunciò la formazione di un governo “ponte” di emergenza, a cui anche la Lega musulamana decise di aderire; tuttavia in diverse zone dell’India si intensificarono scontri a carattere locale tra musulmani e induisti.

Alla fine del 1946 la situazione politica dell’India era al limite dell’anarchia. Il primo ministro britannico annunciò nel 1947 che il suo governo si sarebbe ritirato dal paese e si temette lo scoppio di una guerra civile tra induisti e musulmani. Il viceré Louis Mountbatten suggerì al governo britannico l’immediata suddivisione dell’India come unico mezzo per evitare la catastrofe. Un disegno di legge che adottava la proposta di Mountbatten fu presentato al parlamento britannico il 4 luglio, ottenendo la rapida e unanime approvazione di entrambe le camere.

L’indipendenza

In base a quanto previsto dall’Indian Independence Act, la Legge per l’indipendenza indiana, entrata in vigore il 15 agosto 1947, l’India e il Pakistan furono istituiti come stati indipendenti all’interno del Commonwealth, con il diritto di recedere da esso. Il governo indiano scelse di rimanerne membro. I nuovi stati furono creati sulla base di criteri religiosi, assegnando all’India i territori abitati in prevalenza da induisti e al Pakistan le aree a maggioranza musulmana.

Dopo il passaggio di poteri da parte del governo britannico, l’Assemblea costituente conferì il potere esecutivo a un consiglio di ministri, con Nehru primo ministro. Mountbatten divenne governatore generale del nuovo paese. La fine del dominio inglese fu accolta con entusiasmo dagli indiani di ogni confessione religiosa e tendenza politica.

Prevedendo le dispute di confine che si sarebbero verificate, soprattutto nel Bengala e nel Punjab, fu istituita una apposita commissione, con presidenza neutrale (britannica). Le raccomandazioni di questa commissione in merito al Bengala suscitarono lievi contrasti nella comunità locale, in gran parte grazie all’influenza dell’azione moderatrice di Gandhi. Nel Punjab, al contrario, le decisioni sulla linea di confine portarono quasi due milioni di sikh, tradizionalmente anti-musulmani, sotto la giurisdizione del Pakistan, scatenando violenti combattimenti. A questi seguì un esodo di massa di musulmani dal territorio dell’Unione Indiana verso il Pakistan, mentre sikh e induisti si spostarono dal Pakistan all’Unione.

Il Kashmir, popolato in grande maggioranza da musulmani ma retto da un induista, divenne la principale fonte di attrito tra India e Pakistan. Il 24 ottobre 1947 vi fu proclamato un “Governo provvisorio del Kashmir” da parte di insorti musulmani. Tre giorni dopo Hari Singh, il maharaja induista del Kashmir, annunciò l’adesione del Kashmir all’Unione Indiana. Il governo indiano, riconoscendo la decisione del maharaja, inviò immediatamente alcune truppe a Srinagar, capitale del Kashmir e principale obiettivo degli insorti.

I combattimenti proseguirono per tutto il 1948 ma nel gennaio del 1949 gli sforzi del Consiglio di Sicurezza per riportare la pace ebbero finalmente successo; India e Pakistan accettarono un plebiscito sul futuro politico del Kashmir, da tenersi sotto la supervisione dell’ONU. Il piano delle Nazioni Unite prevedeva tra l’altro il ritiro delle truppe attive nello stato, il ritorno dei profughi che desideravano partecipare al plebiscito e operazioni di voto libere e imparziali sotto la direzione di una “personalità di alto profilo internazionale”. Nel marzo del 1949 il segretario generale dell’ONU Trygve Lie nominò l’ammiraglio americano Chester William Nimitz supervisore del plebiscito nel Kashmir.

Nel frattempo sia l’Unione Indiana sia il Pakistan avevano perso leader di primo piano. Gandhi fu assassinato da un fanatico induista il 30 gennaio 1948 e Jinnah, fondatore del Pakistan, morì nel settembre del 1948.

Nonostante l’accordo tra India e Pakistan, raggiunto nel luglio del 1949, sulla reciproca linea di confine nel Kashmir, le divergenze sul ritiro delle rispettive forze militari prima del plebiscito rimasero insanabili.

I primi anni della Repubblica

 

L’Assemblea costituente indiana approvò una costituzione repubblicana per l’Unione il 26 novembre 1949. Secondo quanto previsto dalla costituzione, la repubblica venne formalmente proclamata il 26 gennaio. Il governo Nehru, in continuità con la linea politica del periodo pre-repubblicano, mantenne, rispetto alla guerra fredda, una posizione generalmente neutrale. La determinazione dell’India a evitare l’allineamento divenne sempre più evidente in seguito allo scoppio della guerra di Corea nel giugno del 1950. Il governo indiano, pur approvando la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU con la quale si invocavano sanzioni militari contro la Corea del Nord, non partecipò con l’invio di contingenti armati all’azione dell’ONU e compì autonomamente ripetuti tentativi per riportare la pace in Estremo Oriente.

Il primo anno della storia repubblicana venne funestato da una serie di calamità naturali, in particolare una diffusa siccità nell’India meridionale e gravi terremoti e inondazioni nell’Assam. Nel dicembre del 1950 l’India dovette chiedere agli Stati Uniti aiuti alimentari.

Il primo marzo 1952 vennero annunciati i risultati delle prime elezioni generali della Repubblica Indiana basate sul suffragio universale. Il Congresso nazionale indiano, il partito al potere, risultò vincente nella maggioranza degli stati membri. A maggio il collegio elettorale di recente costituzione elesse Rajendra Prasad alla presidenza del paese con un mandato di cinque anni.

Nel giugno del 1952 l’India, che aveva boicottato la conferenza di pace giapponese del 1951, concluse un trattato di pace bilaterale con il Giappone, in cui figurava la rinuncia a qualunque riparazione. Nel mese di settembre il governo indiano accettò aiuti alimentari dalla Repubblica Popolare Cinese e dall’Unione Sovietica, ma solo in seguito all’accettazione da parte dei due paesi delle condizioni indiane contro possibili “vincoli politici”. La questione del Kashmir fu temporaneamente risolta nel 1954 con l’adesione del territorio alla Repubblica Indiana.

I primi ministri di India, Pakistan, Birmania, Indonesia e Sri Lanka si riunirono nell’isola di Sri Lanka tra il 28 aprile e il 2 maggio 1954. Essi approvarono tra l’altro una dichiarazione di appoggio per la Conferenza di Ginevra sulle questioni dell’Estremo Oriente, convocata per discutere la possibilità di una conclusione della guerra di Indocina di fronte all’imminente sconfitta francese. Alla fine di giugno, una serie di incontri tra Nehru e il premier cinese Chou En-lai, tra i delegati alla Conferenza di Ginevra, produsse una dichiarazione congiunta in cui si sollecitava una soluzione politica. In base agli accordi per il cessate il fuoco raggiunti nel mese di luglio, l’India presiedette la Commissione internazionale tripartita, creata per sovrintendere all’esecuzione degli accordi.

Nel corso del 1954 vi fu un continuo peggioramento nelle relazioni indiano-portoghesi, dovuto alle insistenti richieste dei nazionalisti indiani affinché il Portogallo rinunciasse ai suoi possedimenti in India. Nell’agosto del 1955 forze di sicurezza portoghesi spararono su un gruppo di manifestanti indiani che attraversavano il confine con Goa. L’India sospese immediatamente le relazioni diplomatiche con il Portogallo.

Questioni interne

Il 26 gennaio 1957 l’India dichiarò lo stato del Kashmir parte integrante della Repubblica Indiana, in conformità a quanto deciso dall’Assemblea costituente del Kashmir. A ciò fecero seguito nel Pakistan numerose rivolte e il paese presentò una energica protesta alle Nazioni Unite. Alle elezioni nazionali del febbraio e marzo del 1957, il Partito del Congresso conquistò 366 dei 494 seggi; con 29 seggi, i comunisti divennero il principale partito di opposizione, ottenendo inoltre il controllo dello stato del Kerala. Il primo ministro Nehru e il presidente Prasad conservarono le proprie cariche.

Nel maggio 1960 lo stato di Bombay venne diviso secondo criteri linguistici nei due stati del Maharashtra e del Gujarat. Per placare la ribellione delle tribù naga, Nehru annunciò la prossima creazione di un nuovo stato del Nagaland, ricavato dallo stato dell’Assam, mentre alle rivendicazioni di alcuni elementi della popolazione sikh di uno stato indipendente in una parte del Punjab fu data risposta nel 1966 attraverso la formazione del nuovo stato dell’Haryana.

Durante la rivolta del Tibet del marzo 1959, quasi 9000 profughi tibetani cercarono asilo politico in India. In seguito scoppiarono scontri di confine tra forze militari cinesi e indiane e in agosto truppe cinesi penetrarono nel territorio indiano. Nell’aprile del 1960 fallì la conferenza indetta per risolvere la crisi, a cui parteciparono Nehru e Chou En-lai.

Gli anni Sessanta e Settanta

 

Nel corso del 1962 si aggravò la disputa di confine tra Cina e India. All’inizio dell’anno i due paesi aumentarono il numero degli avamposti lungo il conteso territorio di confine nell’alto Himalaya, e in ottobre i cinesi attaccarono gli avamposti indiani penetrando all’interno del confine occidentale e orientale. L’avanzata cinese si arrestò solo all’annuncio di un cessate il fuoco unilaterale da parte di Pechino alla fine di novembre. Questa crisi causò una drastica revisione della difesa indiana, e l’allontanamento dal governo del ministro della Difesa V.K. Krishna Menon, un convinto neutralista.

Il 27 marzo del 1964 Nehru morì. A ricoprire la carica fu eletto Lal Bahadur Shastri, ex ministro degli affari interni, alla successione del quale fu scelta la figlia di Nehru, Indira Gandhi.

Nel 1969 il nuovo primo ministro riportò una importante vittoria sull’ala conservatrice del Partito del Congresso, quando l’ex vice presidente Varahagiri Venkata Giri, candidato della premier, sconfisse alle elezioni presidenziali il candidato ufficiale del Congresso. Quest’ultimo giunse così alla scissione: da un lato il Vecchio Congresso, formato dall’ala conservatrice; dall’altro il Nuovo Congresso, diretto da Indira Gandhi, che conseguì una vittoria eclatante alle elezioni del 1971, l’anno del conflitto indo-pakistano. L’India appoggiò la secessione del Pakistan orientale dal Pakistan, e riconobbe la nuova nazione del Bangladesh.

Intorno alla metà degli anni Settanta le condizioni economiche indiane peggiorarono sensibilmente: aumentò la disoccupazione ed esplosero rivolte che rivendicavano migliori condizioni di vita. Si intensificarono inoltre le accuse di corruzione rivolte al governo. Il 18 maggio 1974 l’India compì il primo esperimento nucleare e in agosto fu eletto alla presidenza nazionale un candidato sostenuto dalla Gandhi, Fakhruddin Ali Ahmed.

Nel giugno del 1975 la premier fu accusata di brogli elettorali in occasione delle elezioni del 1971. Condannata dalla corte di Allahabad alla perdita del mandato parlamentare, Indira Gandhi proclamò lo stato di emergenza e fece arrestare i capi dell’opposizione.

All’inizio del 1977, tuttavia, il primo ministro indisse un’elezione generale, sperando di ottenere il consenso popolare. Al contrario, Indira Gandhi perse il proprio seggio in parlamento e per la prima volta dal 1952 il Partito del Congresso non riuscì a conquistare la maggioranza. Il Partito Janata, una coalizione di opposizione, conquistò circa la metà dei seggi e Morarji R. Desai, che lo guidava, fu nominato primo ministro. L’emergenza rientrò e le misure repressive introdotte dal governo Gandhi furono revocate. Indira Gandhi, tuttavia, continuò a esercitare un forte carisma personale e presto un suo nuovo partito, nato dalla scissione del Partito del Congresso, vinse le elezioni nelle regioni del sud e nel Maharashtra.

Nel gennaio 1979, dopo essere stato al potere per oltre due anni, il governo Janata perse la maggioranza parlamentare e Desai diede le dimissioni. Le elezioni del 1980 sancirono l’ampia vittoria del partito di Indira Gandhi, che tornò a rivestire la carica di primo ministro. In seguito alla morte di Sanjay, il suo seggio in parlamento fu occupato dal fratello, Rajiv Gandhi, che appariva il successore designato di Indira Gandhi.

Gli anni Ottanta e Novanta

 

 

Alle richieste di autonomia del Punjab avanzate dai sikh, Indira Gandhi rispose appoggiando la candidatura presidenziale di Zail Singh che, nel luglio del 1982, divenne il primo capo di stato indiano di religione sikh. Le agitazioni autonomistiche, tuttavia, continuarono con diversi incidenti terroristici e nel 1983 la Gandhi pose il Punjab sotto il diretto governo del presidente, attribuendo alle forze di polizia poteri straordinari.

Il centro della resistenza sikh era il Tempio d’Oro di Amritsar. Il 2 giugno 1984, questo fu occupato da militari nel corso di una controversa operazione in cui vennero uccisi centinaia di sikh e sequestrati depositi di munizioni. I militari si ritirarono prima della fine del mese, ma la violenza e la rabbia tra i nazionalisti sikh non si placarono. Il 31 ottobre Indira Gandhi fu uccisa da un colpo d’arma da fuoco sparato da militari sikh che facevano parte della sua guardia del corpo. Nei tumulti che seguirono, almeno 1000 sikh furono linciati dalla folla. Rajiv Gandhi divenne primo ministro poche ore dopo la morte della madre.

Riaffermata la sua leadership nelle elezioni parlamentari del dicembre 1984, Gandhi rispose alle agitazioni dei sikh accordando l’espansione dei confini del Punjab.

All’inizio del 1987 forze armate indiane furono inviate in aiuto allo Sri Lanka per reprimere una ribellione della guerriglia tamil. Un accordo di pace fu sottoscritto a luglio, ma i violenti scontri non si arrestarono. Nel mese di luglio dello stesso anno l’elezione di Ramaswami Venkataraman alla carica di presidente sembrò consolidare la posizione di Gandhi. Tuttavia, accuse di corruzione e cattiva conduzione del partito, oltre all’incapacità di Gandhi di affrontare efficacemente le richieste di autonomia nel Punjab e nel Kashmir, indebolirono il Partito del Congresso (I) che alle elezioni del novembre 1989 perse la maggioranza parlamentare. Primo ministro divenne Vishwanath Pratap Singh, leader del Partito Janata Dal. Nel 1990, una divisione interna al partito di Singh portò alla caduta del suo governo, ormai minoritario; gli succedette il suo maggiore rivale, Chandrasekhar, il cui governo diede le dimissioni nel marzo del 1991 aprendo la strada a nuove elezioni. Durante la sua campagna elettorale, Rajiv Gandhi fu ucciso da un attentatore tamil. Gli elettori attribuirono la maggioranza parlamentare al Congresso-I; e l’ex ministro degli esteri e sostenitore di Gandhi, P.V. Narasimha Rao, divenne primo ministro.

Nei primi anni Novanta è tornata a crescere la tensione tra l’India e il Pakistan per il Kashmir (vedi Jammu e Kashmir). A partire dal 1989 nello stato di Jammu e Kashmir in India si sono avuti sporadici scontri fra l’esercito indiano e militanti separatisti musulmani, in lotta per la formazione di uno stato indipendente o l’unione con il Pakistan musulmano. Il primo ministro del Pakistan Benazir Bhutto ha apertamente appoggiato i ribelli musulmani nel Kashmir indiano. Nel gennaio 1994 i colloqui tenutisi tra l’India e il Pakistan per discutere la situazione della regione contesa non hanno prodotto risultati. Molti paesi temevano che la controversia sul Kashmir potesse degenerare verso un conflitto nucleare, considerato il programma di sviluppo degli armamenti nucleari perseguito dal Pakistan.

Alle elezioni nazionali della fine del 1994 il Congresso-I ha subito una severa sconfitta nel sud del paese. La perdita del consenso è stata in parte la conseguenza delle continue rivolte e tensioni religiose che avevano segnato il 1993, ma rifletteva anche lo scontento popolare per le riforme economiche di tipo liberista introdotte dal governo Rao dopo il 1991. Sebbene, infatti, l’apertura economica abbia da un lato favorito la crescita del paese, dall’altro essa ha anche comportato un forte aumento dell’inflazione, l’aumento dei prezzi e la riduzione dei posti di lavoro in alcune zone. Nel maggio 1996 le urne hanno decretato la sconfitta del Partito del Congresso del premier Rao; nel mese seguente fu formato il nuovo governo, con una coalizione di sinistra guidata da Deve Gowda e Janata Dal nella funzione di primo ministro. La vittoria dei nazionalisti indù del Bharatiya Jantata Party (BJP) ha tuttavia suscitato lo sconcerto tra le minoranze musulmana, cristiana e sikh, che temono la politica xenofoba e di caste sostenuta dal nuovo partito alla guida del paese.

Cina

luglio 25, 2008

(Nome ufficiale: Zhonghua Renmin Gongheguo, Repubblica Popolare Cinese), paese dell’Asia orientale, il più popoloso del mondo e il terzo per estensione. È delimitato a nord dalla Mongolia e dalla Russia; a nord-est dalla Russia e dalla Corea del Nord; a est dal mar Giallo e dal mar Cinese orientale; a sud dal mar Cinese meridionale, dal Vietnam, dal Laos, dal Myanmar, dall’India, dal Bhutan e dal Nepal; a ovest dal Pakistan, dall’Afghanistan e dal Tagikistan; a nord-ovest dal Kirghizistan e dal Kazakistan. Il continente comprende più di 3400 isole, la più importante delle quali, Hainan Dao, si trova nel mar Cinese meridionale. La superficie del paese è di circa 9.536.499 km2, la capitale è Pechino. Il nome cinese del paese (Zhonghua, “terra centrale”) deriva dall’antichissima credenza che esso fosse geograficamente al centro della Terra e sede dell’unica, autentica civiltà.

Territorio

 

 

 

Il territorio cinese è così esteso da comprendere regioni fisiche tra loro molto diverse. I rilievi più imponenti si trovano nelle aree occidentali del continente e comprendono catene quali il Tian Shan, il Kunlun Shan e l’Himalaya. Le zone montuose – ricche di risorse idriche e minerarie – occupano circa il 43% del territorio e cingono una serie di altipiani e bacini; questi ultimi, prevalentemente collinari, si situano soprattutto nelle regioni aride. Solo il 12% della superficie complessiva del paese può essere considerato pianeggiante.

Regioni fisiche

La Cina può essere suddivisa in sei grandi regioni fisiche, ognuna delle quali con proprie peculiari caratteristiche.

Il Nord-ovest

Questa regione comprende a nord il bacino di Zungaria che, nonostante sia caratterizzato da aree desertiche sabbiose e rocciose, è una regione piuttosto fertile dove l’agricoltura viene praticata grazie a estesi sistemi di irrigazione; a sud il bacino del Tarim e gli elevati rilievi del Tian Shan. Quest’area comprende il deserto più arido dell’Asia, il Taklimakan. La sezione orientale del Tian Shan si divide in due catene tra le quali si estende la depressione di Turfan.

La Mongolia interna

Situata nella Cina centrosettentrionale, è un altopiano caratterizzato da deserti di sabbia, roccia e ghiaia che a est digrada in fertili steppe. Questa regione, delimitata a est dalla boscosa catena del Grande Khingan, comprende pianure ondulate divise da aridi tavolati rocciosi.

Il Nord-est

Comprende tutta la Manciuria a est della catena del Grande Khinghan: si tratta di una vasta e fertile pianura circondata da monti e colline intervallate da innumerevoli valli e dolci pendii. A sud si trova la penisola di Liaodong, nota per i suoi porti naturali.

Cina settentrionale

Questa regione si trova nella zona delimitata a nord dalla Mongolia Interna e, a sud, dal bacino del fiume Chang Jiang; qui si trovano l’altopiano del Loess, nel Nord-ovest, caratterizzato da profonde vallate, gole e terrazze adibite alla coltivazione; il bassopiano cinese, la più vasta area pianeggiante del paese, il cui fertile terreno ricco di limo è intensamente coltivato; i monti della penisola dello Shandong, a est, i cui versanti digradano in aree collinari; infine, gli aspri e inaccessibili rilievi del Sud-ovest.

Cina meridionale

 

Questa regione abbraccia la valle del Chang Jiang e le numerose regioni del Sud. La valle del grande fiume consiste in una serie di bacini i cui fertili terreni alluvionali sono solcati da canali navigabili e costellati da laghi. A ovest si estende il bacino del Sichuan, un fertile territorio collinare e coltivato, circondato dai contrafforti irregolari degli altipiani centrali. Gli altipiani meridionali sono compresi tra l’altopiano tibetano e il mare: a ovest, quello dello Yunnan-Guizhou è circondato da una serie di catene montuose, separate da gole ripide e profonde; nel Guizhou orientale il paesaggio è dominato da alte vette di roccia calcarea. A est si estendono le colline di Nan Ling, diboscate e soggette a erosione e, lungo la costa, gli irregolari altipiani sudorientali, dove le baie e le numerose isole formano suggestivi porti naturali. A sud del Nan Ling si trova il bacino dello Xi Jiang. I numerosi torrenti della regione scorrono in fertili valli alluvionali; a sud di Canton si estende la vasta pianura del delta dello Zhujiang.

L’altopiano del Tibet

L’estrema regione sudoccidentale del continente è occupata dall’altopiano del Tibet che, con una media di 4510 m sul livello del mare, è la regione più elevata della Terra. Roccioso e costellato da laghi salati e paludi, l’altopiano è attraversato da numerose catene montuose quali l’Himalaya (a sud), il Pamir e il Karakoram (a ovest), il Kunlun Shan e le Qilian Shan (a nord). Qui si trovano le sorgenti di molti fiumi importanti del Sud-Est asiatico come l’Indo, il Gange, il Brahmaputra, il Mekong, il Chang Jiang e lo Huang He (Fiume Giallo).

Idrografia

 

 

 

Circa il 50% dei fiumi del paese, compresi i tre più lunghi (Chang Jiang, Huang He e Xi Jiang) scorre da ovest a est e sfocia nell’oceano Pacifico; circa il 10% sfocia nell’oceano Indiano o nel mar Glaciale Artico e il rimanente 40%, privo di sbocco al mare, si getta negli aridi bacini occidentali e settentrionali dove le acque evaporano o filtrano formando nel sottosuolo profonde riserve d’acqua.

Il fiume più settentrionale della Cina, l’Amur (Heilong Jiang), segna la maggior parte del confine con la Russia. Il Sungari, il Liao e i loro affluenti defluiscono nelle pianure della Manciuria e nelle circostanti zone di montagna. Il fiume più importante della Cina settentrionale è lo Huang He, le cui piene hanno avuto conseguenze spesso disastrose: nasce nell’altopiano del Tibet, dove segue un andamento tortuoso per poi confluire nel Bo Hai, un ramo del mar Giallo. Il Chang Jiang, che scorre nella Cina centrale, ha una portata dieci volte superiore rispetto allo Huang He ed è il più lungo del continente asiatico; importante arteria di comunicazione, nasce anch’esso nell’altopiano tibetano e sfocia nel mar Cinese orientale. Il fiume Xi Jiang, che sfocia presso Canton, nella provincia di Guangzhou, presenta numerosi affluenti e diramazioni che formano il principale sistema idrico della Cina meridionale.

La maggior parte dei laghi più importanti del paese si trova lungo il medio e basso corso del Chang Jiang, come il Dongting e il Poyang Hu che costituiscono importanti bacini di riserva idrica. Nel delta del Chang Jiang si trovano inoltre il Tai Hu, il Gaoyou Hu e l’Hongze Hu.

Nell’altopiano tibetano sono presenti numerosi laghi di acqua salata, il maggiore dei quali è il paludoso lago Qinghai, situato nella bassa zona nordorientale; anche nell’arida regione nordoccidentale e nelle zone di confine con la Mongolia si trovano numerosi bacini, spesso salati, come il Lop Nur e il Bosten Hu, a est del bacino del Tarim. L’Ulansuhai Nur, alimentato dal fiume Huang He, si trova nella Mongolia Interna, mentre lo Hulun Nur si estende a ovest del Grande Khingan, in Manciuria.

In tutto il paese sono stati creati più di duemila bacini artificiali al fine di agevolare l’irrigazione dei terreni ed evitare gravi inondazioni; di questi il più esteso è il Long Men, sullo Huang He.

Clima

 

Il clima della Cina tende a essere continentale, con forti estremi e variazioni regionali; nell’entroterra occidentale è prevalentemente temperato, con aree desertiche e semiaride; nell’estremo sud e a sud-est si trova una limitata zona caratterizzata da un clima tropicale.

I monsoni esercitano una profonda influenza sul clima del continente. Durante l’inverno, venti freddi e secchi soffiano dal sistema di alte pressioni della Siberia centrale, portando temperature basse su tutte le regioni a nord del Chang Jiang e siccità sulla maggior parte del paese; in estate, aria umida e calda penetra verso l’interno dall’oceano Pacifico, causando spesso il verificarsi di tempeste e cicloni. Le precipitazioni diminuiscono rapidamente con l’aumentare della distanza dalla costa e sui pendii sottovento dei rilievi. Le temperature in estate sono uniformi in tutto il paese, in inverno variano notevolmente da nord a sud.

A sud della valle del Chang Jiang il clima varia da subtropicale a tropicale, con temperature medie estive attorno ai 26 °C. Le medie invernali scendono dai 17,8 °C a sud ai circa 3,9 °C lungo il Chang Jiang. Sulle zone costiere si abbattono spesso tifoni che, concentrati soprattutto tra luglio e novembre, portano forti venti e piogge. Anche gli altipiani e i bacini a sud-ovest hanno un clima subtropicale, con notevoli variazioni locali; a causa delle altitudini elevate, qui le estati sono più fresche e, grazie alla protezione dai venti del Nord, gli inverni sono miti. Il bacino di Sichuan è noto per l’elevata umidità: le piogge, particolarmente abbondanti in estate, superano i 990 mm all’anno in quasi tutta la Cina meridionale.

La Cina settentrionale, che in assenza di rilievi è esposta alle correnti provenienti dalla Siberia, ha inverni rigidi. Le temperature in gennaio variano dai 3,9 °C dell’estremo sud, a circa -10 °C a nord di Pechino e nelle aree montuose a ovest; a luglio superano generalmente i 26 °C e, nel bassopiano cinese, si avvicinano ai 30 °C. Quasi tutte le precipitazioni sono concentrate nel periodo estivo e, generalmente, non raggiungono i 760 mm diminuendo verso nord-ovest, dove il clima è tipico della steppa.

In Manciuria il clima è simile a quello della Cina settentrionale, ma più freddo. In gennaio si registra una temperatura media di circa -17,8 °C mentre le temperature di luglio superano generalmente i 22,2 °C. Le piogge, concentrate in estate, sono in media comprese tra i 510 e i 760 mm nelle zone orientali; più aride sono le aree a ovest del Grande Kinghan, dove la media delle precipitazioni scende a circa 300 mm.

Nella Mongolia Interna e a nord-ovest prevale un clima desertico o semiarido. Le medie di gennaio rimangono inferiori ai -10 °C, a eccezione del bacino di Tarim; quelle di luglio superano generalmente i 20 °C. Le precipitazioni annuali sono inferiori a 250 mm, mentre nella maggior parte del territorio non superano i 100 mm.

Per le sue elevate altitudini, l’altipiano tibetano ha un clima artico; nei mesi estivi le temperature non superano mai i 15 °C, con precipitazioni annuali ovunque inferiori ai 100 mm, a eccezione dell’estremo Sud-est.

Flora

Data la vastità del territorio e la presenza di numerose e diverse regioni fisiche e climatiche, la vegetazione del continente cinese è molto varia. Nel corso dei secoli molte zone sono state diboscate per lasciare il posto a nuovi insediamenti e a terreno agricolo; le foreste naturali sono state salvaguardate solo nelle zone montuose più remote.

Nella regione a sud della valle dello Xi Jiang si trovano fitte foresta pluviale formate soprattutto da sempreverdi d’alto fusto e palme. Una vasta regione caratterizzata da vegetazione subtropicale si estende a nord della valle del Chang Jiang e a ovest dell’altopiano tibetano; qui crescono la quercia, il ginkgo, il pino, l’azalea e la camelia, oltre a foreste di lauri e di magnolie con un denso sottobosco di arbusti e boschetti di bambù. Nelle zone montuose più elevate abbondano le conifere.

A nord della valle del Chang Jiang prevalgono foreste di latifoglie decidue, tra cui la quercia, il frassino, l’olmo e l’acero, mentre a nord, in Manciuria, crescono tigli e betulle. Le più importanti riserve di legname del paese si trovano sui rilievi della Manciuria settentrionale, dove abbondano le foreste di conifere. La pianura della Manciuria, oggi intensamente coltivata, era un tempo caratterizzata da una vegetazione arbustiva e da limitate aree boschive.

Nella zona orientale, ai confini con la Mongolia, si incontrano steppe caratterizzate da una vegetazione arbustiva resistente alla siccità, mentre nelle più aride regioni nordoccidentali ampie zone prive di vegetazione si alternano ad aree limitate in cui crescono graminacee. Le zone più elevate dell’altopiano tibetano sono dominate dalla tundra, con una ricca vegetazione erbacea e fiori, e in alcune zone da foreste di abeti.

Fauna

Le specie animali presenti in Cina sono molteplici. Endemiche sono alcune specie di alligatori e salamandre, il panda gigante, che vive nelle regioni a sud-ovest, e il capriolo d’acqua (Hydropotes inermis), che si trova unicamente in Cina e in Corea.

Nelle regioni tropicali meridionali si trovano numerosi tipi di scimmie e, in alcune zone remote, carnivori quali orsi, tigri e leopardi; questi ultimi vivono anche nelle zone periferiche di molte città, soprattutto nella Manciuria settentrionale. Il leopardo delle nevi vive invece nel Tibet. Piccoli carnivori, come le volpi, i procioni e i bassarischi, sono diffusi un po’ ovunque. Antilopi, gazzelle, camosci, cavalli e cervi popolano le zone montuose e i bacini occidentali; l’alce dell’Alaska si trova nella Manciuria settentrionale. Numerose sono inoltre le specie ornitologiche, tra cui pappagalli, fagiani e aironi.

Tra gli animali domestici troviamo il bufalo, uno degli animali da tiro più diffusi nelle zone meridionali; il cammello, nelle aree settentrionali e occidentali; lo yak, nelle regioni più elevate e nel Tibet.

Ricca è la fauna marina (tonno, granchi, gamberetti, delfini ecc.), soprattutto nelle acque sudorientali, mentre nei fiumi si trovano salmoni, trote, storioni e una particolare specie di delfino d’acqua dolce. L’allevamento ittico è molto diffuso.

Popolazione

 

Il 93% della popolazione cinese è han; più di 70 milioni di persone appartengono a oltre cinquanta diverse etnie che si distinguono dagli han più per ragioni linguistiche e religiose che per caratteristiche razziali. Di queste le principali sono gli zhuang, presenti soprattutto nella regione dello Guangxi Zhuang; gli hui, o cinesi musulmani, che vivono nello Ningxia Hui, nel Gansu e nel Qinghai; gli uiguri (di stirpe turca) dello Xinjiang Uygur; gli yi del Sichuan, dello Yunnan e del Guangxi; i miao del Guizhou, dell’Hunan e dello Yunnan; i tibetani della Regione Autonoma del Tibet e del Qinghai; i mongoli della Mongolia Interna, del Gansu e dello Xinjiang. Tra gli altri si citano coreani, bouyei e manciù; questi ultimi discendono dal popolo che conquistò la Cina nel XVII secolo, stabilendo la dinastia Ching (o Manciù).

Caratteristiche demografiche

 

In base al censimento del 1993 la Cina ha una popolazione di 1.165.700.000 abitanti, con una densità di 123 unità per km2. Il dato rappresenta la media di una distribuzione geografica molto irregolare. La maggior parte della popolazione è concentrata nelle province orientali, teatro dei maggiori eventi della storia cinese; qui gli han hanno sviluppato modelli di insediamento molto diversi rispetto a quelli delle minoranze stanziate nelle regioni a ovest.

Nonostante la recente industrializzazione, la Cina continua a essere un paese principalmente rurale e agricolo dove l’urbanizzazione si è verificata attraverso un processo lento e graduale; tuttora circa il 79% della popolazione vive in insediamenti rurali.

Durante la rivoluzione culturale si cercò di incentivare il trasferimento (temporaneo o permanente) dalla città alle zone rurali di giovani istruiti al fine di diffondervi capacità professionali che avrebbero dovuto ridurre la tendenza all’inurbamento. Il programma fu ridotto dopo la morte di Mao nel 1976 e quasi completamente eliminato verso la fine del 1978. Una politica a lungo termine prevede il trasferimento di 440 milioni di contadini, il 37% della popolazione, verso città già esistenti o nuove città entro il 2040.

Il calo delle nascite verificatosi nel paese tra gli anni Cinquanta e Novanta è dovuto principalmente a iniziative del governo che hanno cercato di limitare l’eccessivo incremento demografico. In tempi recenti è stato imposto un limite al numero dei figli di un nucleo familiare ed è stato legalizzato l’aborto. Da questi programmi lo stato ha escluso la popolazione appartenente a etnie di minoranza in modo da favorire la loro autonomia culturale.

Città principali

 

Le prime città cinesi sorsero nel XV secolo a.C., sotto la dinastia Shang, e si svilupparono come sedi politiche e amministrative, come centri di mercato e, dopo gli anni Cinquanta, anche come poli industriali.

In base a un censimento del 1992, in Cina ci sono oltre quaranta città con più di un milione di abitanti; le principali sono Shanghai (7.834.800 abitanti nel 1993), la città più estesa del paese e il più importante centro portuale; Pechino (5.769.607 abitanti), capitale e centro culturale, Tianjin (4.574.689 abitanti), città portuale sul Grande Canale; Shenyang (3.603.712 abitanti), Wuhan (3.750.000 abitanti) e Canton (3.580.000 abitanti).

Lingua e religione

 

La lingua cinese comprende più di una dozzina di dialetti fra loro differenti. Le minoranze del paese possiedono una propria lingua come il mongolo, il tibetano, il miao, il thai, l’uiguro e il kazaco. Il mandarino viene insegnato nelle scuole, di solito come seconda lingua, e la sua conoscenza è obbligatoria in tutto il paese. Il cantonese è il dialetto maggiormente usato dai cinesi all’estero, a causa delle grandi migrazioni verificatesi soprattutto dalla zona di Canton verso i paesi esteri e dell’importanza che riveste la regione di Guangdong nel commercio internazionale.

Una delle prime azioni compiute dal Partito comunista cinese dopo il 1949, fu l’eliminazione ufficiale della religione di stato. In precedenza i credo dominanti erano il confucianesimo, il taoismo e il buddhismo, seguiti dal cristianesimo e dall’Islam; la maggior parte dei templi e delle scuole appartenenti a tali religioni furono trasformati in edifici civili. Con la costituzione del 1978, tuttavia, fu dato nuovamente assenso ufficiale alla divulgazione e alla pratica religiose, nonostante si siano precisati gli stessi diritti anche per quanto riguarda l’ateismo. La professione del buddhismo tibetano, o lamaismo, rimane ancora vietata a causa della sua relazione con il movimento tibetano indipendentista; si stima che, dopo l’occupazione cinese del 1950, più di 2700 monasteri tibetani siano stati distrutti. Vedi anche Religione cinese.

Istruzione e cultura

 

 

La Cina ha una lunga e ricca tradizione culturale, in cui l’istruzione ha avuto un ruolo importante. Ciononostante, nel 1949 l’80% della popolazione era analfabeta, mentre nel 1990 il tasso di analfabetismo si aggirava ancora intorno al 27%. Uno dei più ambiziosi programmi promossi dal Partito comunista fu garantire un buon livello di istruzione a tutta la popolazione; tra il 1949 e il 1951, più di 60 milioni di contadini frequentarono le “scuole d’inverno” organizzate nei mesi in cui essi non erano dediti al lavoro dei campi.

Nell’attuale sistema, gli studenti più capaci che frequentano le scuole superiori vengono ammessi a corsi specializzati mirati a formare un’élite accademica. Dopo la scuola secondaria gli studenti possono accedere a istituti di istruzione superiore, soprattutto a indirizzo tecnico-scientifico, o universitari. Le principali università della Cina sono l’università di Pechino (fondata nel 1898), l’università di Hangzhou (1952), l’università Futan di Shanghai (1922) e l’università di Scienze e Tecnologia della Cina a Hefei (1958).

I principali centri culturali del paese sono Pechino, Shanghai e Canton, che ospitano musei e monumenti di grande interesse; tra questi si citano la “Città Proibita” a Pechino, antica residenza imperiale e noto museo aperto al pubblico; il Museo di Scienze Naturali e il Museo d’Arte e di Storia, che custodisce una delle più interessanti collezioni d’arte della Cina a Shanghai.

Per approfondimenti riguardanti la cultura cinese vedi Arte e architettura cinese; Letteratura cinese; Cinema cinese; Filosofia cinese; Musica cinese.

Economia

Per più di 2000 anni l’economia cinese si è basata su un sistema feudale: le terre appartenevano a un esiguo numero di proprietari terrieri i cui mezzi di sussistenza provenivano dalle rendite dei loro già poveri affittuari. Le prime industrie e le prime forme di commercio erano controllate da monopoli statali. Nell’XI secolo d.C., sotto la dinastia Sung, si sviluppò una sofisticata economia basata sul commercio con emergenti forme di attività bancaria, che però venne meno con l’avvento della dinastia Ming. Sotto i Ching la Cina ebbe un altro periodo di grande prosperità ed espansione demografica seguito tuttavia da difficili anni di crisi economica e di conflitti interni.

Con la conclusione delle guerre dell’Oppio (1860) ebbe inizio un periodo di penetrazione occidentale che aveva come punto di partenza i porti lungo la costa; il fenomeno portò alla costruzione di ferrovie e allo sviluppo di industrie di tipo moderno, ma ebbe come conseguenza la suddivisione del territorio cinese in diverse sfere d’influenza in competizione fra loro.

Il Partito comunista cinese emerse negli anni Venti, un periodo di pesante crisi economica causata sia dall’intervento straniero sia dalla crescente influenza dei proprietari terrieri nelle aree rurali. Per più di due decenni il Partito promosse un’azione di controllo sulle campagne introducendo un programma agrario basato sul controllo delle quote richieste per l’affitto delle terre e della pratica dell’usura, nonché sull’aumento di potere delle associazioni contadine. Il 1° ottobre 1949 stabilì con successo un governo e un’economia nazionali unificati per la prima volta dalla fine del periodo imperiale. Dal 1949 al 1952 fu posto l’accento su problemi riguardanti l’inflazione, la disoccupazione e la scarsità di risorse alimentari; il nuovo governo diede avvio a una riforma agraria che portò alla ridistribuzione della terra a 300 milioni di contadini che, con il primo piano quinquennale (1953-1957), furono organizzati in cooperative agricole. Nel 1958 furono create le comuni rurali che, basate sul principio della collettivizzazione della terra e dei mezzi di produzione, rimasero il fondamento dell’agricoltura fino all’inizio degli anni Ottanta. Nelle aree urbane, la nazionalizzazione di tutte le imprese (industriali e commerciali) fu realizzata in modo graduale. Grazie al massiccio intervento statale, durante il primo piano quinquennale il settore industriale subì un notevole sviluppo. Il secondo piano quinquennale (dal 1958) assisté all’attuazione del programma che, indirizzando grandi investimenti all’industria pesante, causò gravi squilibri nella gestione e nella crescita nazionale dell’economia, portando alla morte per fame circa venti milioni di persone. Dopo il 1960 l’economia cinese entrò in un periodo di riassestamento; nel 1965 la produzione, in molti settori, raggiunse livelli paragonabili a quelli del precedente decennio. Il terzo piano quinquennale iniziò nel 1966, ma la produzione agricola e industriale fu severamente limitata a causa degli effetti della rivoluzione culturale. Un quarto piano quinquennale fu introdotto nel 1971, in concomitanza con una lenta ripresa economica.

Nel 1976, i leader cinesi diedero avvio a un ulteriore piano quinquennale, interrotto però nel 1978 dal cosiddetto programma delle “quattro modernizzazioni”, tendente a portare il paese a una posizione di preminenza nell’ambito dell’economia mondiale entro il Duemila. Furono avviati programmi di rinnovamento della gestione economica, fu conferito un ruolo più importante alle imprese private e alle cooperative, si cominciò ad avvalersi di tecnologie e investimenti occidentali e a incentivare il più possibile la produzione agricola. Alcune politiche introdotte nell’ottobre del 1984 prevedevano, inoltre, un’ulteriore decentramento della pianificazione economica e un incremento dell’affidamento alle forze di mercato per la determinazione dei prezzi al consumo. Il piano quinquennale dal 1986 al 1990 anticipò la crescita economica a un tasso del 7%, ma l’economia subì un freno – seppur temporaneo – dopo il crollo politico del 1989. Nei primi anni Novanta è iniziata una fase di espansione e di crescita economica alla quale hanno contribuito considerevoli investimenti stranieri, soprattutto americani. Questo rapido sviluppo ha causato alcuni problemi quali l’alto tasso d’inflazione nelle zone urbane e l’acuirsi delle disparità tra i ceti sociali.

Il prodotto nazionale lordo nel 1992 fu di circa 434 miliardi di dollari USA (dati della Banca Mondiale del 1989-1991), pari a circa 370 dollari pro capite. L’agricoltura (comprese alcune piccole industrie nelle zone rurali), la silvicoltura e la pesca rappresentano circa il 27% del reddito nazionale, e l’industria (che comprende i settori manifatturiero, minerario, energetico ed edile) più del 45%.

Agricoltura

 

L’agricoltura, tradizionale risorsa economica del paese, continua a rappresentare un settore importante. I terreni coltivabili non coprono più del 10% della superficie complessiva del paese e si trovano soprattutto nelle regioni orientali del continente. Il consistente aumento della produzione agricola avvenuto a partire dal 1949 – che a causa del massiccio incremento demografico non corrispose a un sostanziale vantaggio per la popolazione – fu probabilmente dovuto ai cambiamenti apportati all’organizzazione dell’attività rurale. Le comuni create nel 1958 – che nel 1979 erano circa 52.000 – divennero le nuove unità socioeconomiche e garantivano il raggiungimento degli obiettivi posti dallo stato. Il sistema permise di condurre esperimenti su grande scala quali lo sviluppo di nuovi metodi di irrigazione e drenaggio. Questi ultimi, assieme a un uso massiccio di fertilizzanti, permisero di ottenere fino a tre raccolti l’anno, soprattutto nelle valli del bassopiano cinese e nel medio e basso corso del Chang Jiang, impoverendo però i suoli. All’inizio degli anni Novanta lo stato, per combattere la carenza di derrate alimentari conseguente all’aumento della media dei consumi pro capite, riorganizzò il metodo collocando la famiglia al centro del sistema di produzione, concedendole di concordare singolarmente con le autorità locali i quantitativi da produrre e di vendere liberamente le eccedenze. La rigida pianificazione precedente, dettata dalla forte pressione esercitata sui terreni arabili, divenne più elastica e fu promossa un’economia di tipo misto, più rispettosa dell’ambiente e maggiormente remunerativa.

Attualmente, per integrare la produzione, sono state create più di 2000 aziende agricole statali, alcune delle quali a scopo sperimentale o per la produzione di raccolti destinati ai mercati urbani o esteri. Queste aziende si trovano spesso in zone vergini dove la densità di popolazione rurale è bassa e dove attrezzature moderne, normalmente poco diffuse a causa delle dimensioni relativamente modeste delle aree coltivate, possono essere utilizzate con efficacia.

Produzione agricola

 

Circa l’80% dei terreni agricoli è destinato alla produzione alimentare; il prodotto principale è il riso, per cui la Cina detiene il primato mondiale, coltivato nelle zone a sud del fiume Huai, nella valle del Chang Jiang, nel delta dello Zhujiang e nel bacino del Sichuan.

Diffuse sono inoltre le coltivazioni di frumento, nella zona a nord del fiume Huai, nel bassopiano cinese e nelle valli dei fiumi Wei e Fen, nella regione del Loess. Nella Cina settentrionale e in Manciuria sono importanti le produzioni di sorgo e di miglio. Il mais occupa circa il 20% delle aree coltivate; la produzione di avena è importante nella Mongolia centrale e nella regione occidentale, principalmente in Tibet.

Altre colture di rilievo sono batate, patate, ortaggi e frutta, come quella tropicale, nell’isola di Hainan, mele e pere nelle province settentrionali di Liaoning e Shandong, e agrumi nella Cina meridionale.

Tra i semi oleosi si coltivano la soia, soprattutto nella Cina settentrionale e in Manciuria, arachidi (nello Shandong e nello Hebei), sesamo, girasole e, nel Sichuan, il tung.

Uno dei principali prodotti da esportazione è il tè, le cui principali piantagioni si trovano nelle aree collinari della valle del Chang Jiang e nelle province sudorientali di Fujian e Zhejiang. Lo zucchero viene ricavato soprattutto dalla canna, coltivata nelle province di Guangdong e Sichuan.

Fiorente è inoltre la coltivazione di piante tessili tra cui quella del cotone, di cui la Cina è il maggiore produttore mondiale, concentrata soprattutto nel bassopiano cinese, oltre che nella regione del Loess, nel basso e medio corso del Chang Jiang. Altre importanti piante tessili sono ramié, iuta, canapa, lino e seta; la sericoltura, attività tradizionale del paese, è praticata nelle regioni centrali e meridionali, soprattutto nel delta del Chang Jiang.

Allevamento

In Cina l’allevamento rappresenta una risorsa molto importante. Il più diffuso è quello dei suini, fondamentale per l’alimentazione, mentre nelle zone rurali occidentali i pastori sono dediti prevalentemente all’allevamento di ovini, caprini e cammelli. Nelle zone più elevate del Tibet la carne di yak, il cui sterco viene usato come combustibile, costituisce uno dei principali alimenti, mentre con la pelle dell’animale vengono prodotti abiti e tende.

Pesca

Nonostante la pesca sia praticata tuttora con metodi piuttosto tradizionali, la Cina è uno dei maggiori produttori di pesce del mondo. Nel paese sono presenti numerosi allevamenti ittici, in particolare di carpe, uno degli elementi base dell’alimentazione cinese. Le principali regioni produttrici si trovano vicino ai distretti urbani nella bassa e media valle del Chang Jiang e nel delta dello Zhujiang Kou. I mari più pescosi sono il mar Cinese meridionale e il Bo Hai.

Risorse forestali

A causa di secoli di eccessivo sfruttamento, le risorse forestali cinesi sono ora limitate. Programmi intensivi volti al rimboschimento hanno ottenuto soltanto risultati parziali e all’inizio degli anni Novanta le zone boscose ammontavano al 13% del territorio totale, per una produzione di 277 milioni di m3 di legname.

La distribuzione delle foreste è molto irregolare; esse si trovano soprattutto in Manciuria, nel Tibet sudorientale e nello Yunnan. Un progetto importante prevede l’impianto di una cintura forestale continua lungo il lato nordoccidentale delle regioni semiaride, nel bassopiano cinese e nella Manciuria occidentale.

Risorse minerarie

La Cina possiede una grande varietà di risorse minerarie: gli unici minerali non presenti sono il vanadio, il cromo e il cobalto. I giacimenti sono distribuiti in tutto il paese, ma le aree più ricche sono la Manciuria meridionale, soprattutto la penisola di Liaodong e le zone montuose del Sud. Sono presenti anche ingenti risorse energetiche. Le riserve di carbone (fino a 11 mila miliardi di tonnellate) si trovano in Manciuria e nelle zone settentrionali; quelle di petrolio (secondo le stime, più di 20 miliardi di tonnellate), soprattutto in mare aperto, in Manciuria, nelle province nordoccidentali di Shaanxi, Gansu, Qinghai, e nello Xinjiang Uygur. I giacimenti di olio di scisto si trovano principalmente nel Liaoning e nel Guangdong. Le riserve di minerali di ferro sono localizzate soprattutto nella Manciuria meridionale, nell’Hebei settentrionale e nella Mongolia interna centrale. I giacimenti di ematite si trovano nel Liaoning, nello Hubei, nella valle del Chang Jiang e nello Hainan; quelli di minerali di alluminio nel Liaoning e nel Shandong. La produzione di stagno raffinato della Cina copre l’8% della produzione mondiale; nel continente, soprattutto nello Hunan, si trovano ricchissimi giacimenti di antimonio e tungsteno. Sono presenti anche magnesite, molibdeno, mercurio, manganese, piombo, zinco e rame. In Manciuria e nelle regioni a nord-ovest sono stati scoperti giacimenti di uranio; altre risorse minerarie importanti sono il sale, il talco, la mica, il quarzo e la silice.

Industria

Dal 1965 al 1990 il settore industriale cinese (principalmente l’industria pesante) incrementò la propria partecipazione al prodotto interno lordo. Verso la metà degli anni Novanta esistevano più di 300.000 imprese che, sparse in tutto il paese, formavano sistemi industriali regionali integrati ma indipendenti.

Alla fine degli anni Settanta lo stato rivide gli obiettivi che si era posto in passato nel tentativo di porre rimedio a una serie di problemi causati dalla cattiva pianificazione. In molte città, la tendenza all’autosufficienza era prevalsa sulla specializzazione; la rapida crescita dell’industria pesante aveva avuto effetti negativi sull’ambiente urbano e aveva utilizzato fondi che sarebbero stati più utili nell’agricoltura, nell’industria leggera e nel miglioramento delle strutture urbane; la tecnologia era stata completamente trascurata.

Il programma di riassestamento prevedeva un rallentamento dello sviluppo dell’industria pesante a favore di quella leggera e del settore edile, incentivato per migliorare le condizioni abitative dei residenti urbani creando contemporaneamente nuove opportunità di lavoro. Un’altra recente riforma fu la concessione di autonomia alle imprese statali, cui venne permesso di gestire, dopo aver raggiunto gli obiettivi fissati dallo stato, la produzione, le vendite e i guadagni. Molti borsisti, dirigenti di fabbriche e tecnici furono inviati all’estero per perfezionarsi nei settori tecnico e gestionale; inoltre fu importata tecnologia straniera sotto forma di nuovi e completi stabilimenti. Agli inizi degli anni Novanta si contavano nel paese più di sei milioni di imprese private e quasi due milioni di imprese organizzate in cooperative autonome.

Produzione industriale

Lo sviluppo dell’industria del ferro e dell’acciaio nel paese è stato prioritario fin dal 1949. Le principali aree di produzione si trovano in Manciuria, nella Cina settentrionale e nella valle del Chang Jiang.

Un’industria pesante di rilievo è rappresentata dalla cantieristica e dalla fabbricazione di locomotive, trattori, macchinari per l’industria estrattiva e per la raffinazione del petrolio.

L’industria petrolchimica possiede stabilimenti nella maggior parte delle province e delle regioni autonome cinesi; di rilievo quelli di Pechino, Shanghai, Lanzhou, Yueyang, Anqing e Canton. La produzione comprende fibre sintetiche, prodotti farmaceutici e materiale plastico. Una caratteristica dell’industria petrolchimica cinese è la presenza molto diffusa di piccoli stabilimenti che producono concime azotato utilizzando una tecnica di produzione, sviluppata nel paese, essenziale per mantenere fertili i terreni agricoli.

Particolarmente fiorente nel paese è l’industria tessile che impiega più di quattro milioni di lavoratori; la maggior parte degli stabilimenti si trova vicino alle zone di produzione del cotone come le province di Hubei, Hunan, Hebei e Shaanxi. Altre industrie importanti producono cemento, carta, biciclette, macchine da cucire, veicoli a motore e apparecchi televisivi.

La Cina è uno dei principali paesi produttori di elettricità del mondo; nonostante questo, il fabbisogno del paese non viene soddisfatto, principalmente nelle città, e per questo lo stato ha dato priorità allo sviluppo del settore. L’energia viene fornita soprattutto da centrali termoelettriche alimentate a carbone mentre le centrali idroelettriche coprono il 5% della produzione annua.

Flussi monetari e banche

L’unità monetaria cinese è lo yuan. Il sistema bancario è controllato dal governo; la Banca Popolare Cinese è l’istituzione centrale di finanziamento ed è responsabile dell’emissione di moneta.

Commercio

Un tempo il commercio interno cinese obbediva a leggi di pianificazione statale. Fino alla fine degli anni Settanta il governo forniva alle imprese di stato macchinari e materie prime e la distribuzione della merce era affidata ad agenzie statali. I prodotti di consumo richiesti dalla popolazione rurale venivano forniti da una cooperativa incaricata della commercializzazione dei prodotti. Questi, come olio, carne, zucchero, cereali e tessuti di cotone, erano razionati e venduti a prezzi politici; i cereali venivano distribuiti nelle zone rurali come remunerazione per il lavoro effettuato.

Dal 1979 le imprese dello stato sono libere di scegliere alcuni dei propri acquisti e di commercializzare parte dei loro prodotti. Nei centri urbani tale riorganizzazione ha portato alla rapida crescita di attività private (soprattutto servizi); nelle campagne sono stati riaperti i mercati, dove le famiglie possono vendere le eccedenze della propria produzione e acquistare altri prodotti.

Per quanto riguarda il commercio estero, nel 1979 la Cina abolì alcune restrizioni aprendo la strada all’investimento e a un aumento degli scambi commerciali. I prodotti maggiormente esportati sono petrolio grezzo e raffinato, tessuti di cotone, seta, abbigliamento, riso, suini, prodotti ittici e tè. I prodotti di importazione comprendono macchinari, automobili, fertilizzanti, caucciù e frumento. Il Giappone è il paese con cui la Cina realizza il maggior numero di scambi commerciali, seguito da Hong Kong e dagli Stati Uniti; tra gli altri si citano la Germania, Taiwan e Singapore.

Trasporti e comunicazioni

 

Due terzi del trasporto di passeggeri e metà del trasporto merci viene effettuato su rotaia. Dal 1949 la rete ferroviaria è stata ampliata fino ad arrivare nel 1992 a 68.000 km, di cui solo una piccola parte è elettrificata; quando il tratto Lanzhou-Lhasa (Tibet) sarà completato, la ferrovia collegherà tutte le province e le regioni autonome della Cina.

La rete stradale (1.056.700 km) collega oggi Pechino a tutte le province, le regioni autonome, i porti e i centri ferroviari ed è ampiamente presente anche nelle zone rurali. Nelle aree urbane il trasporto pubblico è ben sviluppato. Nel 1994 sulle strade cinesi circolavano più di 8 milioni di autoveicoli; molto diffuso è l’utilizzo della bicicletta.

Molti trasporti nel paese avvengono attraverso gli oltre 110.000 km di canali navigabili. I principali sono il Chang Jiang e il Gran Canale, che si estende da Pechino a Hangzhou. In alcune zone i canali di irrigazione e di drenaggio vengono usati dai contadini come idrovie interne. Anche i collegamenti marittimi sono importanti e la flotta mercantile cinese ammonta a circa 2700 navi (1994). Il trasporto aereo fu incrementato a partire dal 1980, con l’apertura dell’aeroporto internazionale di Pechino.

Il sistema delle telecomunicazioni è ancora in stato di estrema arretratezza e la maggior parte delle stazioni radiofoniche e televisive, il servizio telefonico e quello postale sono ancora gestiti dallo stato.

Ordinamento dello stato

La Repubblica Popolare Cinese si regge su una costituzione promulgata nel 1982, la quarta dopo l’avvento del regime comunista (le altre tre furono redatte nel 1954, nel 1975 e nel 1978). L’Assemblea nazionale del popolo è l’organo con i maggiori poteri; i suoi membri – che devono appartenere al Partito comunista o essere da esso approvati – sono eletti per un periodo di cinque anni attraverso una serie di elezioni indirette. Questa rappresenta il potere legislativo e ha la facoltà di apportare modifiche alla costituzione, stabilire i piani economici e approvare i bilanci dello stato, ma in pratica, a causa dell’alto numero dei suoi membri (2896 nel 1993), si riunisce di rado e solo per discutere determinate questioni. Un Comitato permanente, da essa eletto, la sostituisce in diverse funzioni. L’Assemblea nazionale del popolo elegge il presidente (carica perlopiù formale) ogni cinque anni e il governo, organo esecutivo presieduto da un primo ministro e responsabile di fronte al potere legislativo. Il premier e il segretario generale del Partito comunista sono le figure più influenti dell’apparato statale. Una Commissione militare centrale è preposta al comando dell’esercito. L’ordine civile in Cina, diversamente che in Occidente, è da sempre affidato alle famiglie, ai distretti o ai governi locali e non è mai stato creato un sistema giudiziario ufficiale. A partire dal 1978 il paese si è impegnato ad adeguare il proprio ai sistemi dei paesi occidentali e, dal 1982, i cinesi hanno acquisito il diritto ad avere una difesa legale. Attualmente l’organo più alto è la Corte popolare suprema, che garantisce il rispetto della costituzione e delle leggi promulgate dal governo.

Il governo locale in Cina è organizzato in tre livelli amministrativi; al primo livello, immediatamente sottoposte al governo centrale, ci sono 22 province, 5 regioni autonome e 3 municipalità direttamente gestite (Pechino, Shanghai e Tianjin); al secondo livello vi sono le prefetture, le contee e le municipalità; al terzo le suddivisioni municipali e i villaggi.

Partiti politici

In base alla costituzione del 1982, la Cina è una dittatura socialista del proletariato sotto la guida del Partito comunista responsabile dell’attività politica nazionale. Il suo organo supremo è il Congresso nazionale; il Comitato centrale, eletto dal Congresso nazionale, elegge il Politburo (russo, “ufficio politico”), la Commissione permanente e il segretario generale. Il potere è esercitato dal Politburo e dalla Commissione permanente.

Nel paese sono attivi anche alcuni partiti politici minori e organizzazioni di massa, quali la Lega cinese democratica, la Federazione atletica cinese e la Federazione di tutte le donne cinesi, ma l’unico gruppo politicamente influente è la Lega della gioventù comunista che agli inizi degli anni Novanta contava 50 milioni di membri.

Storia

Reperti archeologici scoperti nelle vicinanze di Pechino attestano l’esistenza dell’Homo erectus in quella regione 460.000 anni fa. Verso il 5000 a.C. una civiltà agricola sorse in Cina orientale nella valle dello Huang He: essa sviluppò le due cosiddette culture della terracotta, la cultura Yang Shao (3950 ca. – 1700 ca. a.C.) e la cultura di Longshan (2000 ca. – 1850 ca. a.C.).

Le prime dinastie

 

La tradizione vuole che la prima dinastia cinese ereditaria fosse la dinastia Xia (1994 ca. – 1766 ca. a.C.). Tuttavia, è la dinastia Shang quella di cui si hanno i più antichi reperti storici.

La dinastia Shang (1766-1027 a.C.)

La dinastia Shang regnò sul territorio delle attuali province centrosettentrionali di Henan, Hubei e Shandong. Dal 1384 a.C. la capitale fu Anyang, vicino al confine settentrionale della provincia dello Henan. La società Shang era di tipo aristocratico, con un’economia prevalentemente agricola. Il re governava, al vertice di una nobiltà militare, ed era coadiuvato da una classe sacerdotale istruita, cui era delegata la responsabilità dell’amministrazione e della divinazione.

Secondo la tradizione, l’ultimo monarca Shang fu spodestato dal re di Chou, uno stato situato nella valle del fiume Wei, ai confini nordoccidentali dei domini Shang. La cultura Chou fu una miscela degli elementi fondamentali della civiltà Shang e di alcune tradizioni marziali caratteristiche dei popoli non appartenenti all’etnia han del Nord e dell’Ovest.

La dinastia Chou (1027 ca. – 256 a.C.)

Sotto la dinastia Chou la capitale fu trasferita a Hao, presso la moderna Xi’an e, al culmine del suo potere, i territori da essa dominati si estendevano verso sud fino ad attraversare lo Chang Jiang; verso nord-est fino all’attuale Liaoning; a ovest fino al Gansu e a est fino allo Shandong. Per governare un così vasto territorio fu creata una gerarchia di vassalli che col tempo divennero sempre più autonomi.

I re Chou riuscirono a mantenere il controllo sui loro domini fino al 770 a.C., anno in cui molti stati si ribellarono e, con l’aiuto di popolazioni turco-tanguse, li scacciarono dalla capitale. I Chou si ritirarono a est, stabilendo una nuova capitale a Luoyi.

Il periodo dei Chou orientali diede alla cultura cinese i suoi tratti fondamentali. Le necessità legate al governo imperiale furono all’origine del confucianesimo; le antiche forme religiose furono raccolte nel taoismo. Dal secolo VIII al III a.C., nonostante l’estrema instabilità politica e il quasi ininterrotto stato di guerra, si ebbero una rapida crescita economica e profondi mutamenti sociali: i raccolti, più abbondanti, sostennero un costante aumento demografico; alcuni signori smisero di mantenere schiavi e affittarono le loro terre a contadini tenutari; la maggiore ricchezza favorì il sorgere di un’influente classe mercantile.

I rapporti tra i singoli stati divennero comunque sempre più instabili. Nel VI secolo a.C. sette di essi, molto estesi, erano egemoni e in una situazione di relativo equilibrio rispetto a stati meno importanti posti nelle pianure centrali delle regioni del Nord. Nel 403 – e fino al 221 a.C. – la Cina entrò nel periodo detto dei Regni combattenti, nel corso del quale si svilupparono nuove tecniche belliche, come l’uso di soldati a cavallo (appreso dalle tribù del Nord), dell’arco, dell’assedio.

Creazione dell’impero

 

 

 

 

Durante il IV secolo a.C. il regno di Ch’in, uno stato periferico del Nord-ovest, avviò un ambizioso programma di riforme amministrative, economiche e militari e, estintosi del tutto il potere dei Chou (256 a.C.) nell’arco di una generazione, riuscì a soggiogare tutti gli altri Regni combattenti.

La dinastia Ch’in (221 – 206 a.C.)

Nel 221 a.C. il re dei Ch’in si autoproclamò Shi Huangdi, o primo imperatore della dinastia Ch’in (che diede il nome alla Cina).

Egli seppe fondere la molteplicità di staterelli feudali in un impero centralizzato amministrativamente e unificato culturalmente. Le aristocrazie ereditarie furono abolite e i loro possedimenti furono divisi in province governate da funzionari di nomina imperiale; furono adottati sistemi standardizzati di scrittura, di pesi e misure e di moneta; fu introdotta la proprietà privata delle terre e furono imposte leggi e tasse. La ricerca di uniformità culturale portò i Ch’in a mettere al bando le contrastanti scuole filosofiche fiorite durante il tardo periodo Chou, e dare riconoscimento ufficiale al solo legalismo (vedi Confucianesimo).

Il primo imperatore favorì una politica di conquista. Le sue armate marciarono fino al delta del Fiume Rosso, nell’attuale Vietnam, estendendo il regno fino a comprendere parte dell’attuale Corea. La più nota impresa dei Ch’in fu comunque il completamento della Grande Muraglia.

Le conquiste territoriali, la costruzione della Muraglia e altre imponenti opere pubbliche furono realizzate con enorme impegno di risorse e di vite umane. Il peso sempre più oneroso delle tasse, del servizio militare e dei lavori forzati finì col generare tra la gente comune una profonda avversione al regime.

La dinastia Han occidentale (206 a.C. – 9 d.C.)

Dalla turbolenza e dalle guerre che segnarono gli ultimi anni della dinastia Ch’in, emerse Liu Bang (in seguito conosciuto con il titolo di Gao Zu) che dopo avere sconfitto gli altri contendenti al trono, si autoproclamò imperatore nel 206 a.C. La dinastia Han, che egli fondò, governò per quattro secoli e da subito seppe intervenire sulle condizioni che avevano prodotto la caduta dei Ch’in; furono abrogate le leggi più gravose, ridotte drasticamente le tasse e fu adottata una politica di tolleranza nel tentativo di promuovere la ripresa economica, benché le terre dell’impero Han fossero mantenute sotto il diretto controllo imperiale.

La prima dinastia Han raggiunse l’apice della potenza sotto l’imperatore Wu-ti, che regnò dal 140 all’87 a.C. su quasi tutto il territorio dell’attuale Cina. L’impero cinese raggiunse la Manciuria del Sud e il regno coreano di Chao-hsien, penetrò il territorio dell’attuale Kazakistan, e stabilì colonie attorno al delta dello Xi Jiang, nell’Annam e in Corea.

La politica di espansionismo esaurì le risorse finanziarie, di conseguenza furono nuovamente aumentate le tasse e ripresi i monopoli di stato. Durante il I secolo a.C. l’incompetenza e la faziosità indebolirono il governo imperiale e i grandi proprietari terrieri delle province acquisirono la virtuale esenzione dalle tasse.

La dinastia Xin (9-23 d.C.)

Un cortigiano ambizioso, Wang Mang, ucciso l’imperatore ancora infante, stabilì la breve dinastia Xin. Egli cercò di rafforzare il governo imperiale nazionalizzando le terre e ridistribuendole tra coloro che effettivamente le coltivavano ma il suo proposito naufragò di fronte alla strenua opposizione della classe dei proprietari terrieri. La crisi agricola si intensificò e nella Cina del Nord scoppiò una ribellione, capeggiata da un gruppo noto come Sopraccigli rossi, cui subito si unirono le famiglie dei grandi possidenti; i ribelli riuscirono a uccidere Wang Mang e a ristabilire il regime della dinastia Han.

La dinastia Han orientale (25-220 d.C.)

La seconda dinastia Han ristabilì il dominio cinese in Asia centrale e, grazie al controllo acquisito sulla Via della Seta, il commercio divenne di nuovo fiorente. La nuova dinastia rivelò presto debolezze e inefficienze amministrative tali che tra il 168 e il 170 scoppiò una guerra tra gli eunuchi e i burocrati. Nel 184 scoppiarono inoltre due rivolte contadine, guidate da gruppi religiosi taoisti. Le famiglie dei grandi proprietari terrieri, approfittando della debolezza del governo imperiale, si dotarono di eserciti privati. Alla fine, nel 220, uno dei più valorosi generali dell’impero Han si impossessò del trono e diede inizio alla dinastia Wei (220-265). La sua autorità fu però presto messa in discussione da altri capi militari: la dinastia Shu (221-263) fu stabilita nella Cina sudoccidentale, mentre una dinastia Wu (222-280) comparve nel Sud-est. Queste tre dinastie, dette Tre Regni Militari, si trovarono in costante conflitto. Nel 265 Sima Yan (un generale Wei) usurpò il trono e stabilì la dinastia Chin occidentale (265-317); entro il 280 egli aveva già riunito il Nord e il Sud della Cina sotto il suo regno, ma alla sua morte (290) l’impero tornò a sgretolarsi, nuovamente preda degli interessi delle famiglie che possedevano le terre.

Le tribù turco-mongole del Nord approfittarono della debolezza del governo per acquisire nuovi pascoli nel fertile bassopiano cinese. Le invasioni iniziarono nel 304 e si succedettero ininterrottamente per quasi tre secoli. Nel Sud del paese si susseguirono quattro dinastie cinesi, tutte accentrate attorno all’area dell’attuale città di Nanchino. Ancora a nord, da una delle popolazioni della steppa protagoniste da decenni dell’invasione di quelle regioni, nel 386 sorse la dinastia turca dei Tabgac Wei, capace di estendere il proprio potere su tutto il bassopiano cinese e avviare l’ennesimo processo di riunificazione dell’impero. Alle altre tribù di frontiera fu riconosciuta ampia autonomia in cambio dell’obbligo del servizio militare; a corte furono adottati usi, costumi e abbigliamento di stile cinese, e il cinese divenne la lingua ufficiale. Nel 534 la ribellione dei capi tribù all’autorità centrale dell’imperatore determinò la fine della dinastia.

La riunificazione del paese

La Cina fu effettivamente riunificata sotto il dominio della dinastia Sui (589-618). Il soldato Yang Chien riuscì a usurpare il trono di quello che era stato il dominio dei Tabgac Wei, e a controllare anche la parte meridionale del paese stabilendo la sua capitale a Chang’an (attuale Xi’an). Per quanto breve, il periodo Sui fu molto importante: riprese forma un sistema amministrativo centralizzato; rifiorirono il confucianesimo, il taoismo e il buddhismo; la Grande Muraglia fu restaurata e fu avviata la costruzione di un complesso sistema di canali (nucleo originario del futuro Grande Canale) per trasportare i prodotti agricoli del delta dello Chang Jiang a Loyang e nel Nord. Fu riaffermato il controllo cinese sul Vietnam settentrionale e, in misura più limitata, sulle tribù dell’Asia centrale. Tuttavia, lunghe e costose campagne condotte nella Manciuria meridionale (605) e nella Corea settentrionale (612-614) si risolsero in una sconfitta dell’imperatore Yang-ti, rovesciato poco dopo (617) da ribelli guidati da Li Yuan.

La dinastia Tang (618-907)

Il periodo della dinastia Tang, fondata da Li Yuan (in seguito denominato Gaozu), fu uno dei più grandi della storia della Cina. Governo e amministrazione furono ristrutturati e accentrati. I domini cinesi furono estesi a nord e a ovest, e già a metà del VII secolo la dinastia si era affermata come grande potenza euroasiatica, mantenendo relazioni diplomatiche con Bisanzio e il Giappone.

Proprio i legami internazionali resero la Cina dei Tang prospera quanto cosmopolita. Nelle città le comunità mercantili provenienti dall’Asia centrale e dal Medio Oriente introdussero nuovi modelli culturali e nuove religioni (l’Islam, l’ebraismo, il nestorianesimo, lo zoroastrismo e il manicheismo). A partire dalla metà dell’VIII secolo, il commercio marittimo con i paesi dell’Asia sudorientale iniziò a superare in volume quello della Via della Seta con l’Asia centrale. Nel IX secolo le navi cinesi si spinsero fino all’oceano Indiano e al golfo Persico, trasportando sete e ceramiche e stabilendo ovunque comunità di mercanti. Sotto i Tang si assistette inoltre a una grande fioritura delle arti.

Alla metà dell’VIII secolo, tuttavia, all’apice del suo splendore, il potere dei Tang dovette confrontarsi con una devastante rivolta capeggiata dal generale di frontiera An Lu-shan. La repressione della rivolta, pur riuscita (763), sembrò esaurire tutte le energie della dinastia regnante, peraltro non più in grado di controllare i suoi governatori militari di frontiera, impegnati negli ultimi vent’anni di regno in continue lotte per la supremazia.

La frammentazione del tessuto politico ed economico che seguì al crollo della dinastia Tang portò a un periodo di disunione noto come Periodo delle Cinque Dinastie e dei Dieci Stati Indipendenti (907-960). Nel suo corso, la dinastia mongola-khitana dei Liao (907-1125) si stabilì in Manciuria e in Mongolia estendendo la sua influenza su alcune parti delle province settentrionali di Hebei e Shaanxi; Pechino divenne la capitale del loro impero.

Maturità culturale e dominazione straniera

 

La dinastia Sung (fondata nel 960 d.C. da Chao K’uang-yin, comandante della guardia di palazzo del regno dei Chou settentrionali insediato sul trono dalle truppe con il titolo imperiale di T’ai-tsu) riuscì a porre fine al cinquantennio di lotte intestine seguito al crollo della dinastia Tang. Quest’epoca viene comunemente suddivisa nel periodo dei Sung del Nord (960-1126), in cui la capitale fu stabilita a Kaifeng, e in quello dei Sung del Sud (1127-1279), la cui capitale fu Hangzhou.

La dinastia Sung (960-1279)

Imposto il proprio potere ai comandanti militari, i sovrani Sung favorirono lo sviluppo agricolo; particolare attenzione fu riservata allo sviluppo di progetti per la conservazione delle risorse idriche, al raddoppio dei raccolti, all’espansione della coltivazione del cotone. Fiorirono inoltre l’artigianato e la tecnologia, e tutto questo portò a un’espansione del commercio, con l’apertura di nuove vie di comunicazione. In particolar modo i commercianti cinesi tornarono a spingersi oltre i confini del loro paese, sia via terra lungo la Via della Seta sia per nave fino al Mediterraneo.

Una minaccia costante fu però rappresentata dagli imperi confinanti: a nord e a ovest la dinastia mongolo-khitana (907-1125) di Liao espugnò Hebei ed Hedong e costrinse i sovrani Sung a riconoscerle le precedenti acquisizioni della Manciuria e della Mongolia interna (1005). Nel 1125 l’impero Liao venne a sua volta vinto dalla dinastia tungusa dei Jin, che l’anno seguente allontanarono i Sung dai loro domini settentrionali spingendoli a sud, dove questi diedero vita al regno dei Sung meridionali.

Nel 1206 tutte le tribù mongole si unirono sotto la guida di Gengis Khan e iniziarono una campagna di conquiste che diede origine al più grande impero del tempo. In Cina cadde per prima la dinastia Jin: Gengis Khan espugnò Pechino nel 1215 per poi estendere il suo dominio su tutta la Cina del Nord. La conquista del regno dei Sung del Sud fu invece completata nel 1279, dopo quarant’anni di guerra, da Kublai Khan.

La dinastia Yuan (1279-1368)

Kublai spostò la capitale mongola nei pressi della moderna Pechino, e da lì regnò su un impero esteso dall’Europa orientale alla Corea, dalla Siberia del Nord ai confini settentrionali dell’India, impiegando nel governo l’apparato amministrativo dei Sung. Sotto il regno della dinastia mongola – detta degli Yuan – si intensificò il traffico sulle vie commerciali dell’Asia centrale, controllate interamente dai mongoli. La Cina fu raggiunta da missionari e commercianti occidentali, tra i quali il mercante veneziano Marco Polo. Tuttavia nel paese cresceva il malcontento. La classe degli ex funzionari confuciani era irritata dalle proscrizioni che impedivano ai cinesi di ricoprire incarichi importanti, mentre il peso delle tasse alienò ai governanti l’appoggio della classe contadina. A partire dal 1340 si ebbero insurrezioni in quasi tutte le province imperiali; nel corso di una di queste il capo ribelle Chu Yüan-chang (ex monaco buddhista), riuscì a estendere il suo potere su tutta la valle del Chang Jiang, e da lì nel 1371 marciò verso nord e prese Pechino. I mongoli dovettero ritirarsi nella madrepatria, da dove non smisero tuttavia di rappresentare una minaccia.

Potere imperiale

 

 

Due grandi dinastie dominarono la storia cinese dopo l’ascesa di Chu, che assunse il nuovo nome di Hung-wu.

La dinastia Ming (1368-1644)

La dinastia Ming, della quale Chu fu il fondatore, stabilì inizialmente la capitale a Nanchino, ripristinando la civiltà tradizionale dei periodi Tang e Sung. La Grande Muraglia e il Grande Canale furono ampliati. L’impero fu suddiviso in 15 province, ognuna amministrata da tre commissari responsabili delle finanze, degli affari militari e delle questioni giuridiche. I primi Ming ristabilirono inoltre la pratica dei tributi da parte degli stati vassalli. Già nei primi anni del XV secolo le tribù della Mongolia furono sconfitte e la capitale riportata a Pechino. Le numerose spedizioni navali intraprese resero manifesta a tutto il Sud-Est asiatico la potenza dei sovrani Ming. Dalla metà del XV secolo, tuttavia, il loro potere iniziò a declinare; gli eunuchi di corte giunsero a esercitare un forte controllo sull’imperatore, fomentando il malcontento e la faziosità all’interno del governo; le casse imperiali furono prosciugate dalle spese per la difesa contro i mongoli e contro l’invasione giapponese della Corea tentata da Toyotomi Hideyoshi nel 1590. Proprio in questo momento di difficoltà, si verificarono i primi scambi commerciali via mare tra la Cina e il mondo occidentale (con i portoghesi, nel 1514; con le colonie spagnole nelle Filippine a partire dal 1570; nel 1619 con gli olandesi stabilitisi a Taiwan). Nella seconda metà del XVI secolo i missionari gesuiti giunsero in Cina dall’Europa, ma non riuscirono a diffondere né il cristianesimo, né il pensiero scientifico occidentale.

La caduta dei Ming fu anticipata da una ribellione popolare nello Shaanxi. Quando i ribelli raggiunsero Pechino nel 1644, il comandante delle forze imperiali decise di respingere i loro attacchi ricorrendo all’aiuto dei guerrieri manciù che però, vittoriosi, si rifiutarono di lasciare Pechino, costringendo i Ming a ritirarsi nel Sud della Cina, ove cercarono, invano, di ristabilire il loro regime.

La dinastia Manciù o Ching (1644-1912)

Sotto i sovrani manciù, la potenza dell’impero cinese raggiunse l’apice della sua storia bimillenaria per poi crollare sotto la duplice spinta della crisi del sistema di governo e delle pressioni esterne. I manciù assorbirono la cultura cinese, acquisendo in particolare le strutture politico-amministrative dei Ming, altamente centralizzate, con al vertice un Gran Consiglio che si occupava degli affari politici e militari dello stato sotto la diretta supervisione dell’imperatore.

Entro la fine del XVII secolo, i Ching avevano eliminato ogni traccia di opposizione Ming e soffocato una rivolta guidata da generali cinesi cui era stato affidato il governo di territori semiautonomi nel Sud. Con il regno dell’imperatore Ch’ien Lung a metà del secolo successivo, la dinastia giunse all’apogeo del potere, con il pieno controllo di Manciuria, Mongolia, Xinjiang e Tibet; Nepal e Birmania (l’attuale Myanmar) inviavano periodicamente tributi alla corte Ching, così come le isole Ryukyu, la Corea e il Vietnam del Nord; Taiwan fu incorporata al territorio metropolitano cinese.

Il XVIII secolo fu anche un periodo di ordine, pace e prosperità senza precedenti nella storia della nazione. La popolazione raddoppiò e ciò pose le premesse della crisi, poiché la produzione agricola risultò insufficiente. Inoltre, le risorse finanziarie del governo furono gravemente intaccate dai costi di una politica di espansionismo, e il mantenimento di truppe manciù stanziate in tutto il territorio cinese rappresentò un pesante capitolo di spesa.

I manciù accettarono loro malgrado di stringere relazioni commerciali con l’Occidente. Il permesso di effettuare scambi con l’estero fu inizialmente circoscritto al porto di Canton e a un numero limitato di mercanti cinesi. L’Inghilterra comprava ingenti quantità di tè che pagava in argento; ma quando i mercanti inglesi introdussero in Cina l’oppio indiano, attorno al 1780, questo mercato si sviluppò in maniera rapidissima, facendo crollare l’economia cinese.

Pressioni esterne

Il XIX secolo si aprì così all’insegna della crisi irreversibile del sistema di governo imperiale e del costante intensificarsi delle pressioni occidentali e giapponesi per una maggiore apertura dei mercati cinesi. Fu la questione delle relazioni commerciali tra Cina e Gran Bretagna a dare origine al primo serio conflitto. Gli inglesi erano ansiosi di estendere i loro scambi commerciali ben oltre la provincia circostante Canton; dal canto suo la Cina non aveva alcun interesse a incrementare le proprie attività commerciali con l’Occidente; piuttosto intendeva risolvere la questione del traffico d’oppio, che stava minando le basi morali e finanziarie dell’impero. Nel 1839 funzionari cinesi confiscarono e distrussero enormi quantitativi di oppio stivati nelle navi inglesi all’ancora nel porto di Canton, e imposero controlli severissimi alla comunità mercantile inglese della città. Il rifiuto inglese di adeguarsi a queste disposizioni portò all’aprirsi delle ostilità.

Guerre commerciali e trattati ineguali

La prima guerra dell’Oppio si concluse nel 1842 con la sconfitta della Cina e l’ottenimento da parte della Gran Bretagna dei privilegi commerciali che cercava; nel corso dei due anni successivi, Francia e Stati Uniti riuscirono a imporre a Pechino una serie di trattati analoghi. Una seconda guerra dell’Oppio (1856-1860) estese ulteriormente i vantaggi concessi ai commerci occidentali, ratificati però solo dopo che un corpo di spedizione franco-britannico prese stanza a Pechino.

Questi trattati, noti come “trattati ineguali”, avrebbero regolato i rapporti tra cinesi e occidentali fino al 1943, cambiando il corso dello sviluppo sociale ed economico cinese e segnando definitivamente il destino della dinastia Manciù. In forza delle clausole imposte dai trattati, i porti cinesi furono aperti al commercio estero e ai residenti; Hong Kong e Kowlojon furono cedute permanentemente alla Gran Bretagna; a tutti gli stranieri in Cina fu garantito il diritto a essere processati nei propri consolati e in base alle leggi dei rispettivi paesi; tutti i trattati comprendevano una clausola della “nazione-più-favorita”, in base alla quale qualsiasi privilegio concesso dalla Cina a un determinato paese veniva automaticamente esteso a tutti gli altri paesi firmatari. I trattati fissavano inoltre un limite del 5% alle tasse di importazione sui prodotti; scopo di questa clausola era prevenire l’imposizione di eccessive tasse doganali la cui mancanza, tuttavia, impedì alla Cina di proteggere l’industria nazionale e di promuovere la modernizzazione economica.

La ribellione dei taiping

A metà del XIX secolo le fondamenta dell’impero furono scosse dalla rivolta dei taiping, una rivoluzione popolare di carattere religioso, sociale ed economico guidata da Hong Xiuquan, autoproclamatosi fratello minore di Gesù, con il mandato divino di liberare la Cina dal dominio manciù e di stabilirvi una dinastia regnante cristiana. La ribellione scoppiò nella provincia di Guangxi dal 1849 al 1851, e nel 1853 si estese verso nord. I taiping stabilirono la propria capitale a Nanchino dopo essere stati fermati nella loro avanzata verso Pechino; nel 1860 erano ormai saldamente insediati nella valle del Chang Jiang, e minacciavano di prendere Shanghai.

La dinastia Manciù modificò la propria politica nell’intento di far sopravvivere l’impero. Dal 1860 al 1895 furono numerosi i tentativi di risolvere i problemi sociali ed economici interni, adottando tecnologie e sistemi di governo occidentali per rafforzare il potere dello stato; nel contempo, tutte le ribellioni (compresa quella dei taiping) furono soffocate con la forza, e la pace civile restaurata. Tuttavia, la classe dei funzionari centrali rimase culturalmente inadeguata al compito, scarsamente interessata a un programma di modernizzazione del paese, così che i tentativi della Cina di rivedere radicalmente la propria realtà non ebbero successo.

La spartizione in sfere di influenza

Nel 1875 le potenze occidentali e il Giappone iniziarono a smantellare il sistema cinese degli stati tributari del Sud-Est asiatico. Le Ryukyu furono poste sotto il controllo giapponese; la guerra franco-cinese del 1884-1885 incorporò l’Annam nell’impero coloniale francese, mentre l’anno successivo la Gran Bretagna subentrò definitivamente, in Birmania, all’impero cinese. Nel 1860 la Russia conquistò le province marittime della Manciuria settentrionale e le zone a nord del fiume Amur. Nel 1894 gli sforzi giapponesi di togliere alla Cina la sovranità sulla Corea provocarono la guerra sino-giapponese, nella quale l’impero celeste patì una pesante sconfitta (1895) che lo costrinse a riconoscere l’indipendenza della Corea e a cedere al Giappone l’isola di Taiwan e la penisola del Liaodong, nella Manciuria meridionale.

Le potenze occidentali reagirono immediatamente, esigendo che il Giappone restituisse la penisola del Liaodong in cambio di una considerevole indennità di guerra. Nel 1898, incapace di far fronte alle molteplici pressioni di cui era oggetto, la Cina era ormai stata divisa di fatto in diverse zone di influenza economica. Alla Russia fu concesso di costruire ferrovie attraverso la Manciuria e la penisola del Liaodong, oltre a una serie di diritti economici esclusivi su tutto il territorio della Manciuria. Altri diritti esclusivi sullo sviluppo di ferrovie e di giacimenti minerari furono concessi alla Germania nella provincia dello Shandong, alla Francia nelle province meridionali di confine, alla Gran Bretagna nelle province rivierasche del Chang Jiang e al Giappone nelle province costiere del Sud-est. A seguito della guerra russo-giapponese del 1904-1905, i diritti russi sulla Manciuria meridionale furono trasferiti al Giappone. Gli Stati Uniti, nel tentativo di preservare i loro diritti senza entrare in conflitti territoriali, lanciarono la politica della porta aperta (1899-1900): la posizione paritaria di tutte le nazioni sul territorio cinese non avrebbe in nessun modo dovuto essere mutata, ovvero, nessuna nazione avrebbe potuto esercitare alcun diritto di prelazione rispetto alla libertà di accesso nei porti cinesi, dando così alle potenze europee eguali diritti commerciali entro le sfere d’influenza.

I movimenti riformatori e la rivolta dei Boxer

 

Nel 1898 un gruppo di riformatori illuminati mise a punto un programma di riforme in grado di trasformare la Cina in un’efficiente monarchia costituzionale moderna. Ufficiali manciù appoggiati dall’imperatrice madre Cixi (Tz’u Hsi) sequestrarono però l’imperatore, e con l’aiuto di militari lealisti soffocarono il movimento di riforma. Dopo che nel 1900 la xenofoba rivolta dei Boxer sostenuta dagli ambienti di corte fu stroncata da un corpo di spedizione occidentale inviato a Pechino, il partito tradizionalista di corte ebbe modo di misurare l’inconsistenza della politica reazionaria adottata e, ormai in ritardo, varò un piano di riforme sul modello di quello che aveva radicalmente cambiato il volto del Giappone (1902). Proprio la disfatta nella guerra sino-giapponese favorì Sun Yat-Sen nella sua propaganda rivoluzionaria in favore dell’instaurazione in Cina di un governo repubblicano e progressista. Nell’ottobre del 1911 una rivolta scoppiò ad Hankou, nella Cina centrale, per diffondersi subito in tutte le province dell’impero. Il capo di stato maggiore imperiale, generale Yuan Shikai (Yüan Shih-k’ai), trattò con i ribelli, e il 14 febbraio 1912 un’assemblea rivoluzionaria riunita a Nanchino lo acclamò primo presidente della neocostituita Repubblica di Cina.

La Repubblica cinese

Nonostante l’adozione di una costituzione e l’insediamento di un parlamento nel 1912, Yuan Shikai non permise mai un vero controllo sul suo operato. Quando il nuovo partito nazionalista del Guomindang guidato da Sun Yat-Sen tentò di limitare il potere di Yuan prima con l’azione parlamentare, poi con un tentativo di ribellione (1913), questi sciolse il parlamento e dichiarò fuorilegge il movimento. Alla sua morte, avvenuta nel 1916, il potere politico passò nelle mani dei cosiddetti Signori della Guerra, mentre il governo centrale mantenne un’esistenza fittizia durante tutto il 1927.

Nel corso della prima guerra mondiale, il Giappone ridusse la Cina a protettorato (1915). La tardiva entrata in guerra della Cina a fianco degli Alleati nel 1917 ebbe l’unico scopo di assicurare al paese un posto al tavolo della pace e un’opportunità di contrastare le ambizioni giapponesi. A Versailles il presidente americano Woodrow Wilson si mostrò troppo interessato a dar vita alla Società delle Nazioni per permettersi di affrontare in modo adeguato il problema cinese e correre così il rischio di perdere il sostegno del Giappone.

Il Guomindang e l’ascesa del Partito comunista

 

Delusi dal cinismo mostrato dalle potenze occidentali, i cinesi rivolsero la loro attenzione all’Unione Sovietica, rappresentata in patria dal Partito comunista cinese, fondato a Shanghai nel 1921 e che contava tra i suoi primi membri Mao Zedong. Nel 1923 Sun Yat-Sen accolse i consigli sovietici relativi alla riorganizzazione del fatiscente Guomindang e delle sue deboli forze militari, ammettendo membri comunisti nel direttivo del partito, che dopo la morte di Sun venne guidato dal generale Chiang Kai-shek. Questi nel 1926, dalla base militare del partito a Canton, iniziò la campagna di liberazione nazionale dal potere dei Signori della Guerra. Nel contempo, a partire dal 1928, Chiang rovesciò la linea del suo predecessore e condusse una sanguinosa epurazione dei membri comunisti del partito.

I problemi di Chiang

Il nuovo governo nazionale, stabilito dal Guomindang a Nanchino nel 1928, dovette così affrontare l’opposizione dei Signori della Guerra e agli inizi degli anni Trenta la rivolta comunista scatenata da Mao Zedong; egli, con i capi comunisti Chou En-Lai e Che-teh, costituì, nella zona montana dello Jangxi, una Repubblica sovietica cinese sostenuta da un forte esercito e appoggiata dai contadini, attratti dalla prospettiva di una riforma agraria. Infine, il nuovo governo di Chiang dovette far fronte all’aggressione giapponese in Manciuria e nella Cina settentrionale, sfociata nel 1931-1933 nella creazione dello stato-fantoccio del Manchukuo, formalmente affidato alla guida di Pu Yi, ultimo sovrano manciù, che assunse il titolo di imperatore.

Nel tardo 1934 Chiang Kai-shek riuscì a circondare l’Armata Rossa nello Jiangxi ma i comunisti, rotto l’assedio al termine della cosidetta Lunga marcia, riuscirono a trasferirsi nella provincia settentrionale dello Shaanxi. Allarmato dall’avanzata giapponese, un gruppo di ufficiali obbligò Chiang a stringere un momentaneo patto d’azione antigiapponese con i comunisti, sospendendo la guerra civile.

Seconda guerra mondiale

Nel 1937 le ostilità tra Giappone e Cina sfociarono in una vera e propria guerra. Entro il 1938 il Giappone aveva invaso la maggior parte della Cina nordorientale, la valle del Chiang Jiang fino ad Hankou, e il territorio di Canton, sulla costa sudorientale. Il Guomindang spostò la capitale e gran parte dell’esercito nell’entroterra, nella provincia sudoccidentale di Sichuan. Durante la seconda guerra mondiale i comunisti, dalla base di Yan’an, occuparono gran parte del territorio della Cina del Nord infiltrandosi in molte zone rurali a ridosso delle linee giapponesi. Riuscirono a conquistarsi l’appoggio dei contadini locali, consolidarono le basi del partito e dell’Armata Rossa, aumentandone sensibilmente le fila.

Lotta per la supremazia tra il Guomindang e il Partito comunista

Nel 1945, subito dopo la resa del Giappone, la guerra civile riprese, nonostante un tentativo di mediazione operato dal generale americano George Marshall, che dopo circa un anno dovette rinunciare all’impresa (1947). Nel 1948 l’iniziativa militare passò ai comunisti, e nell’estate del 1949 la resistenza nazionalista crollò. Chiang e i suoi cercarono rifugio sull’isola di Taiwan, mentre il 1° ottobre 1949 veniva proclamata ufficialmente la Repubblica Popolare Cinese.

La Repubblica Popolare

Il nuovo regime, imperniato sui principi del Partito comunista cinese e del maoismo, diede vita a una struttura di governo fortemente centralizzata.

Trasformazione della società

Obiettivo prioritario del nuovo regime fu la trasformazione della Cina in una società socialista.

Per ristrutturare radicalmente l’economia, distrutta da decenni di guerre interne, i comunisti adottarono misure rigorose nel controllo dell’inflazione, organizzarono gli agricoltori in cooperative e si impegnarono a fondo in un programma teso ad aumentare la produzione nelle campagne, mentre l’industria veniva gradualmente statalizzata. Una riforma agraria generale fu messa a punto nel 1950, seguita dalla creazione di fattorie collettivizzate. Il primo piano quinquennale industriale del 1953 (programmato con l’assistenza sovietica) fu incentrato sull’industria pesante, a scapito della produzione di generi di largo consumo.

Politica estera

Cina e Unione Sovietica sottoscrissero trattati di amicizia e di alleanza nel 1950, 1952 e 1954. Durante la guerra di Corea truppe cinesi intervennero a sostegno del regime comunista nordcoreano contro le forze dell’ONU, mentre dopo la tregua del 1953 Pechino intensificò il flusso di aiuti militari ai ribelli comunisti che combattevano contro i francesi in Vietnam.

Pechino, inoltre, si apprestò a conquistare aree territoriali considerate storicamente cinesi e di importanza strategica fondamentale: nel 1950 truppe cinesi invasero il Tibet; nel 1954 iniziò il bombardamento dell’isola di Quemoy, controllata dai nazionalisti; più tardi fu la volta di altre isole, tra le quali Matsu, fatta evacuare nel 1955.

Il Grande balzo in avanti

Nel 1956 fu portata a termine l’organizzazione collettivistica dell’agricoltura con la creazione delle comuni del popolo, unità socioeconomiche e amministrative di base, con limitata autonomia decisionale, chiamate a dare attuazione ai programmi produttivi stabiliti dalle autorità centrali. Due anni dopo fu varato un piano generale di sviluppo economico a tappe forzate. Slogan del programma era l’effettuazione di un Grande balzo in avanti, ma il piano portò al conseguimento di risultati modesti a causa dell’inadeguata pianificazione e di una direzione incerta.

Progressivo isolamento

La situazione peggiorò nel 1960 con la sospensione dell’assistenza economica e tecnica da parte dell’Unione Sovietica. Tra le due potenze comuniste erano infatti emersi contrasti ideologici; i cinesi erano particolarmente critici verso il leader sovietico Nikita Kruscev, accusato di revisionismo e di tradimento degli ideali marxisti-leninisti. Pechino iniziò a proporre apertamente la propria leadership come alternativa a quella sovietica nel mondo comunista, puntando soprattutto a ottenere consensi tra le nazioni non-allineate. Tuttavia, le azioni aggressive perpetrate nello stesso periodo non facilitarono questa politica: nel 1959 truppe cinesi occuparono territori appartenenti all’India; i negoziati che seguirono si rivelarono inconcludenti, e le ostilità ripresero nel 1962 quando, nuovamente, forze cinesi violarono le frontiere indiane (vedi Guerra sino-indiana). Nel Sud-Est asiatico i comunisti cinesi offrirono invece sostegno morale e assistenza tecnica alle insurrezioni nel Laos e in Vietnam.

Il movimento dei cento fiori

Il fallimento delle riforme economiche diede spazio a linee politiche alternative a quelle del Grande Timoniere (soprannome attribuito a Mao). Nel maggio del 1956 fu lanciata una campagna che incitava i cinesi a “lasciar fiorire cento fiori diversi, e lasciar confrontarsi cento diverse scuole di pensiero”. La popolazione più istruita raccolse l’invito a manifestare apertamente la propria opinione. Nel giugno del 1957, il governo introdusse rigidi controlli sulla libertà di espressione e arrestò o costrinse all’esilio molti intellettuali.

La grande rivoluzione culturale proletaria

Le divergenze tra Mao e il partito dei moderati pragmatisti si intensificarono. Nel 1959, sostituito dal moderato Liu Shaoqi nella carica di capo dello stato, Mao conservò quella di presidente del partito. Il suo carisma ebbe però a soffrire del fallimento totale del grande balzo in avanti da lui ideato e fortemente voluto. La divergenza si trasformò in aperto contrasto nel 1966 quando Mao, sua moglie Chiang Ch’ing e altri suoi stretti collaboratori lanciarono lo slogan della “grande rivoluzione culturale proletaria” intesa a recuperare lo zelo rivoluzionario del primo comunismo cinese, perduto a causa dell’imborghesimento dei quadri di governo e dell’apparato burocratico del partito.

Gruppi di studenti autodenominatisi “guardie rosse della rivoluzione” invasero le strade, seguiti da giovani lavoratori, contadini e soldati in congedo, manifestando a favore di Mao e criticando ogni forma di autorità istituita. Intellettuali, burocrati, funzionari di partito, operai divennero oggetto di umiliazioni e violenze pubbliche, licenziamenti, e spesso furono forzati a lavori fisici abbrutenti. La struttura del partito fu annientata, e molti suoi alti funzionari (tra i quali il capo dello stato Liu e il segretario generale del partito Deng Xiao-ping) rimossi dai loro incarichi ed espulsi.

Nel biennio 1967-68 le lotte sanguinose tra maoisti e antimaoisti fecero migliaia di vittime. Alla fine il compito di ripristinare l’ordine venne demandato all’esercito, guidato da Lin Piao.

Nel frattempo la tensione tra Cina e URSS si era intensificata raggiungendo il culmine con le accuse di imperialismo mosse ai leader sovietici dopo l’invasione della Cecoslovacchia. Nel 1969, lungo il fiume Ussuri, in Manciuria, truppe cinesi attaccarono alcune guardie di confine sovietiche, creando una situazione che poteva rivelarsi esplosiva.

Gli ultimi anni di Mao

Alla luce di questi eventi, il IX Congresso del Partito comunista tenuto nell’aprile del 1969 cercò di riportare ordine nella situazione interna componendo la lotta di potere in corso da tempo ai vertici della nazione. Mao fu rieletto presidente del partito e il ministro della Difesa Lin Piao (scelto personalmente da Mao) venne indicato quale suo successore. Alcuni posti-chiave, tuttavia, vennero affidati a esponenti moderati fautori di politiche pragmatiche, come il primo ministro Chou En-Lai (unico vero antagonista di Mao per carisma personale e potere).

Un episodio clamoroso di queste poco decifrabili lotte intestine si ebbe nel 1971, quando Lin Piao morì vittima di un misterioso incidente aereo mentre, apparentemente, tentava la fuga dal paese. La preminenza politica di Chou En-Lai apparve sempre più evidente. Mao lanciò un nuovo appello diretto alle masse (1973-74) a difesa delle acquisizioni egualitarie della rivoluzione comunista e contro il “burocraticismo di partito”. Il radicalismo di Mao ebbe ancora modo di esprimersi nella nuova costituzione adottata dal IV Congresso nazionale del popolo nel gennaio del 1975; tuttavia nello stesso anno vi fu la nomina a vice primo ministro di Deng Xiao-ping, vittima riabilitata della rivoluzione culturale.

In questo periodo le relazioni internazionali della Cina migliorarono sensibilmente. Nel 1971 essa venne ammessa alle Nazioni Unite (ONU) subentrando alla Repubblica Cinese (Taiwan), ottenenendo un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza. Nel 1972 il presidente americano Richard Nixon si recò in visita ufficiale a Pechino, aprendo così la strada a normali relazioni diplomatiche tra le due potenze (1973); quelle con il Giappone furono riprese nello stesso 1972.

I successori di Mao

Dopo la morte di Mao e Chou En-Lai nel 1976, si scatenò la lotta per il potere tra moderati e radicali. Questi ultimi riuscirono a impedire l’elezione a primo ministro di Deng Xiao-ping, che fu addirittura rimosso temporaneamente dagli incarichi di governo e di partito. Con un compromesso fra i due schieramenti, Hua Kuo-feng fu nominato primo ministro: sotto il suo governo prevalse la linea moderata. Per consolidare la propria posizione, Hua fece arrestare e accusare di diversi crimini i capi dell’estrema sinistra, la cosiddetta Banda dei Quattro; quindi si concentrò sullo sviluppo economico della nazione, affidandosi al “partito dei pragmatisti”. Nel 1977 Deng fu reintrodotto nelle sue funzioni di vicepremier, in base a un organigramma che venne confermato l’anno successivo dal V Congresso nazionale del popolo.

Relazioni estere

Mentre la politica interna cinese mutava, i rapporti con il Vietnam iniziarono a incrinarsi a causa del permanere dell’influenza sovietica nel paese e delle discriminazioni operate dai vietnamiti ai danni della minoranza cinese locale. Quando il Vietnam invase la Cambogia rovesciandone il governo filocinese (gennaio 1979), Pechino reagì occupando il territorio nazionale vietnamita. Anche se le forze d’occupazione si ritirarono dopo meno di tre mesi, la tensione tra i due paesi rimase elevata, soprattutto a causa della politica filosovietica adottata dal Vietnam.

Preoccupata dalla minaccia rappresentata dall’alleanza tra Unione Sovietica e Vietnam, la Cina intensificò la politica di apertura diplomatica verso le potenze occidentali e il Giappone, cui si accompagnarono le prime disponibilità in materia di economia, intese principalmente ad attrarne gli investimenti esteri.

Gli anni Ottanta

Deng e il resto dell’anziana classe di governo cinese assunsero in campo economico un atteggiamento decisamente meno dogmatico rispetto a quello conservato nelle questioni politiche. Il programma delle “quattro modernizzazioni” anticipò una serie di riforme economiche e di mutamenti di strategia indirizzati al rafforzamento e all’arricchimento del paese. Il “sistema della responsabilità casalinga” permise ai contadini di vendere a prezzi di mercato la produzione eccedente quella stabilita dalle quote governative. La Cina si aprì al commercio e agli investimenti esteri, entrando a far parte della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale nel 1980. Il risultato fu una crescita economica annuale media del 10% per tutto il decennio del 1980.

Nel 1980 Hua Kuo-feng si dimise dall’incarico di premier e fu sostituito da Zhao Ziyang, fedele sostenitore di Deng. In giugno un altro alleato di Deng, Hu Yaobang, sostituì Hua come responsabile del partito. Verso la fine degli anni Ottanta le contraddizioni delle politiche di Deng divennero però più evidenti. La liberalizzazione economica aveva dato origine a una forte inflazione, alimentata dall’emissione di quantitativi esagerati di moneta per sostenere il deficitario settore pubblico dell’economia cinese. Si intensificarono allora in tutto il paese le richieste di accompagnare le riforme economiche con riforme politiche democratiche.

Da piazza Tienanmen a oggi

 

Nel gennaio del 1987 Zhao Ziyang fu nominato segretario generale del Partito comunista in sostituzione di Hu Yaobang, costretto a dimettersi. Il mutamento ai vertici ebbe luogo dopo un’ondata di manifestazioni studentesche che rivendicavano maggiore democrazia e libertà di espressione. Il XIII Congresso del Partito comunista, che si aprì in ottobre, segnò il trionfo della corrente di Deng, ufficialmente ritiratosi dal Comitato centrale. Li Peng fu confermato primo ministro e ad altri esponenti della nuova generazione di giovani tecnocrati vennero assegnati incarichi elevati.

La morte di Hu Yaobang nell’aprile del 1989 fu seguita da una nuova ondata di dimostrazioni in nome della democrazia che si intensificò in maggio (in concomitanza della visita a Pechino del leader sovietico Michail Gorbaciov) con appelli al governo per una glasnost di stile sovietico. I manifestanti occuparono il centro della capitale fino alla mattina del 4 giugno, quando truppe lealiste dell’esercito, massacrando migliaia di civili, posero fine alle manifestazioni di piazza Tienanmen. Nella repressione politica che seguì, Zhao Ziyang fu spogliato dei suoi incarichi di partito, e Jiang Zemin divenne segretario generale. Deng fece il gesto di rinunciare alla sua ultima carica ufficiale nel marzo del 1990, ma conservò il potere effettivo, continuando a visitare le aree economiche speciali della Cina sudorientale e a sostenere i “metodi capitalisti” per promuoverne la crescita. Nel marzo del 1993 l’VIII Congresso nazionale del popolo elesse Jiang alla presidenza della Cina risolvendo formalmente la questione della successione dell’anziano Deng (più che mai saldamente alla guida del paese) nel quadro di una normalizzazione che riproponeva intatte le condizioni precedenti la protesta di piazza Tienanmen, facilitata anche dall’atteggiamento non certo intransigente della comunità internazionale rispetto alle violazioni dei diritti umani in Cina. Nel febbraio del 1997, la Cina ha dato il suo ultimo saluto al “Piccolo Timoniere” (soprannome che Mao aveva attribuito a Deng); il potere è nelle mani del primo ministro Jiang Zemin.

Riprogrammiamo il computer

luglio 25, 2008

La nostra mente non può fare a meno di pensare.

Essa pensa in continuazione, perché questa è la sua natura.

Ma noi non siamo la nostra mente. La nostra realtà trascende il pensiero, è al di là di ogni espressione a livello fisico o mentale. Diretta conseguenza di quella asserzione è che il mondo creato dai nostri pensieri non è molto reale. Il pensiero non riesce a captare la realtà di un qualsiasi elemento della creazione. Quando guardo una rosa, non mi limito a gustarne la bellezza o il profumo, senza pensare. La mente comincia subito a ragionare sulle caratteristiche di questo fiore, a far paragoni e cosi via.

Perciò l’essenza profonda dell’esperienza viene quasi totalmente perduta. Giudicando ciò che ci circonda, perché proprio questo vuol dire pensare, cataloghiamo le varie situazioni, cose e persone, creandoci attorno qualcosa simile a un involucro. Viviamo nel nostro bozzolo, incapaci di vedere al di là dei nostri preconcetti. Tali preconcetti non sono innati. La nostra mente, fin dalla nascita, subisce uno stillicidio continuo di informazioni che hanno lo scopo di “educarla”, cioè renderla conforme alla vita della comunità. Queste informazioni, che ci vengono trasmesse dalle fonti più svariate, ma tutte egualmente potenti, come la scuola, la famiglia, l’ambiente sociale, la religione, creano un vero e proprio schermo intorno al nostro cervello.

Ci troviamo così condizionati, cioè programmati a dare determinate risposte a determinati stimoli. Se temo una certa cosa, la mia risposta, cioè la mia reazione, sarà direttamente determinata dal condizionamento ricevuto. Potrò perciò comportarmi da vile, da temerario, da aggressivo, da indifferente e cosi via. Le reazioni sono infinite, dato un determinato stimolo, perché infiniti, o quasi, sono i programmi che possono essere stati inseriti nella nostra mente fin dalla più tenera età. Anche l’esempio ricevuto da altri, una semplice immagine, una parola udita per caso, hanno contribuito ad arricchire il nostro “computer” mentale. Adesso però siamo adulti. Siamo quindi capaci di vedere se il “programma” che dirige la nostra vita non è più rispondente alle nostre esigenze.

Se decidiamo che , in effetti, non lo è, non siamo obbligati a tenercelo per sempre. Ogni condizionamento può essere eliminato e sostituito con un altro di nostra scelta. È esattamente lo stesso procedimento che usiamo con il computer in ufficio, o la lavatrice per la quale selezioniamo un diverso programma a seconda dei capi che dobbiamo lavare. Se si lascia tale programma invariato, resterà cosi per sempre. Se decidiamo che non ci serve più, o non ci piace più, o abbiamo un’idea migliore, possiamo imparare come cancellarlo e riprogrammare il tutto secondo le nostre attuali esigenze.

Le parole

luglio 25, 2008

Quel giorno era domenica e come succedeva da qualche anno Ercole e Virgilio erano soliti andare a messa, anche perché Ercole con quel suo strano stato di salute aveva deciso di rendere omaggio alla Madonna in modo più devoto del solito.

Ercole aveva deciso di non prendere più i tranquillanti, perché si sentiva meglio, o era quello che credeva, comunque….

Tutti gli abitanti di Bivio che volevano andare a messa si dovevano spostate dalla parte dei Misti, dove si occupavano, appunto, di questioni mistiche e religiose, in modo particolare; arrivati alla chiesa principale entrarono, senza salutare nessuno, anche se le persone che partecipavano le avevano conosciute molto bene in gioventù, presero posto, la solita panca, e aspettarono che la funzione cominciasse.

Il tempo liturgico era quello ordinario, anno A.

Ascoltarono tutto con attenzione, ma Ercole si dimenticava molto velocemente di quello che sentiva, ma anche se non ricordava niente si presentava sempre, come la promessa che aveva fatto.

Tutto si svolse e si concluse come sempre e ripresero la via del ritorno.

Virgilio ne approfittava sempre per stimolare il suo amico-allievo, e anche questa volta non fu da meno, quando ormai erano abbastanza lontani dalla chiesa gli chiese: “Cosa ti ricordi?”, “Caro Virgilio non mi ricordo più niente, non capisco perché, ma è cosi”, “Sai perché!”, “No, dimmi”, “Perché non ti concentri su quello che stai ascoltando e pensi ad altro, dovresti provare e lasciare il resto fuori dalla chiesa”, “Hai ragione devo provare, ma però oggi cosa hanno detto?”, Virgilio accennando un leggero sorriso cominciò, “Il tema che ho avuto modo di cogliere e quello della misericordia, tema molto importante a mio avviso, infatti Gesù dice –Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori-, quando sento questa frase mi viene in mente sempre il concetto che Gesù ama molto di più le persone deboli che quelle forti e giuste, perché le prime sono peccatrici e sbagliano, lui sa come curare le ferite del peccato, basta che il malato è disposto ad accogliere la sua parola e se questo succede, ci invita ad essere suoi testimoni nella vita quotidiana, e cosa possiamo fare per cominciare ad essere suoi testimoni?Essere misericordiosi delle persone che ti stanno vicino, misericordia non vuol dire sacrificarsi per gli altri, ma amarli, dobbiamo aumentare la conoscenza di Dio; il Vangelo di Matteo 9,9-13, spiega molto bene cosa voleva dire avere misericordia, l’immagine che viene presa come esempio e quella in qui Gesù passando vicino a Matteo, lo ha rialzato dal suo peccato, rendendo la misericordia elemento di viva esperienza –Matteo seguimi! – e lui lo segui”, come al solito Ercole lo seguiva nel suo discorso, “Ora Ercole posso anche spiegarti il prossimo comando”. “Si, andiamo avanti”, “Il comando diceva: -Le parole e le scritture(non solo quelle sacre), dicono più cose di quanto possa sembrare-, il fondamento di questo comando è l’osservazione, senza di questa non si è in grado di cogliere veramente tutte le sfumature e i particolari delle cose e delle persone, non possiamo leggere una cosa e non capire cosa abbiamo letto o non ricordarsi quello che abbiamo letto, non possiamo conoscere una persona se non la abbiamo molto osservata prima, sempre questa persona ci dice molte, solo se la osserviamo, senza parlare con essa, solo se sappiamo osservare e ascoltare, solo se sappiamo attendere che quella persona ci racconti di se stessa, senza volerlo, ovviamente anche noi dobbiamo essere pronti e con abbastanza esperienza per capire e percepire quei segnali, se non siamo in sintonia con quei messaggi allora non li capiamo e continuiamo per la nostra strada e vita, ma il problema è solo nostro, non abbiamo capito, fai attenzione, la stessa cosa può accadere con i libri o ogni mezzo di comunicazione, dobbiamo essere in grado di percepire i segnali; osserva, ricorda, rifletti, non ti dimenticare mai di queste cose, e se qualche cosa non ti quadra chiedi consiglio a una persona fidata, vivere può essere molto facile o molto difficile, in fondo tutto dipende da noi”, Ercole questa volta era molto attento e si ricordava tutto, ripromettendosi in cuor suo di osservare le cose con più attenzione.

Dopo dieci minuti che avevano ricominciato a chiacchierare del più e del meno, Ercole dovette di nuovo tornare a casa perché non si sentiva molto bene.

Sballo!

luglio 11, 2008

Domenica scorsa era una giornata nuvolosa e calda, e ne approfitto per fare una lunga passeggiata, cosa che mi piace molto, camminare non mi è mai dispiaciuto, affaticarsi lentamente guardando spensierato quello che mi scorre a torno è una cosa che amo molto, la giornata non era delle migliori e cosi sono tornato a casa prima del previsto.

Dopo essermi sistemato guardo la televisione e mi capita il solito speciale della domenica, non ricordo esattamente il titolo della trasmissione, ma quello che diceva…….

Non sono riuscito a vedere la trasmissione per intero, ma quello che ho visto è stato sufficiente, l’argomento della giornata era quello della droga e giovani, praticamente sono riuscito a sentire che le droghe che girano attualmente, ma anche qualche anno fa, hanno avuto una evoluzione, ora la maggior parte dei giovani preferiscono le droghe “pulite”, nel senso che ora prendono molto volentieri le pastiglie di Lsd piuttosto che le anfetamine, questo perché la siringa non viene usata e si stacca dall’ immaginario collettivo del tossicodipendente, cosa che in entrambi i casi si è comunque; come diceva anche nel libro che sto leggendo “Gomorra”, le droghe vengono tagliate con varie sostanze, e una delle intervistate spiegava che durante una festa c’era stata una intossicazione collettiva, perché le “paste” erano tagliate con un topicida, altri raccontavano che loro ingoiavano le pastiglie solo nel week-end e per questo non si consideravano drogati, poi quando hanno cominciato a perdere il passo con i propri coetanei hanno cominciato a porsi il problema, altri cominciavano la sera a ingoiare pillole, ma vedendo che non aveva effetto o meglio ritardava, ne ingoiavano altre, fino a che sono “salite” tutte assieme, e hanno preso una botta incredibile e sotto gli effetti della sostanza hanno combinato cose inenarrabili, sostanze che sono in grado provocare allucinazioni e rendere una persona sana come uno schizofrenico, raccontava uno che in discoteca era seduto ai divani e allo stesso tempo si vedeva ballare sulla pista, ovviamente era una allucinazione; le immagini che mandavano erano di ragazzi che barcollavano o si arrampicavano sui muri, ma poi alcuni di loro sono andati in comunità e hanno cominciato il recupero.

Mentre guardatole immagini e ascoltavo i servizi, mi chiedevo: “Ma per sballarsi non è necessario prendere Lsd o altre sostanze stupefacenti, basta andare in ospedale, li si che ti fanno vedere i sorci verdi, gialli, blu e bianchi a pallini”, poi il giorno dopo ripenso a questa trasmissione e trovo la controstoria, perché c’è sempre una controstoria.

Ma scusate!Perché ti devi sballare prendendo delle sostanze rovinandoti la vita?Ma lo sai qual è il vero sballo nella vita?Il vero sballo che mai uomo possa mai conoscere è Gesù Cristo, lui la vita tela salva, e per spiegarti cosa voglio dire dovrei scrivere troppe cose, ma fidati che è cosi, vedrai!

Nel trasgredire non c’è libertà, ma c’è libertà nell’ obbedire!

Il foglio.10/7/2008

luglio 11, 2008

COME SONO SORTE LE CALUNNIE. SOCRATE INDAGA PRESSO I POLITICI. IL SENSO DELL’ORACOLO

 

Ho raccontato questo perché possiate osservare come sia nata la calunnia. Quando io conobbi le parole dell’oracolo pensai così fra di me: “Che cosa vuole mai dire Dio? Giacché io non mi sento affatto di essere sapiente. Quale è il senso allora delle sue parole? Certo non è possibile che egli menta”. E stetti molto tempo in dubbio senza riuscire a comprendere che cosa avesse mai voluto significare. E fu così che, mio malgrado, mi decisi a venirne a capo.

Mi recai infatti presso uno di quelli che passavano per sapienti, sicuro di smentire l’oracolo e dimostrare così che quello era più sapiente di me. Esaminai per tanto a fondo il mio personaggio (è inutile che ve ne dica il nome: era un uomo politico) ed ecco l’impressione che ne ricavai: mi parve che quest’uomo apparisse sapiente a molti, e soprattutto a se stesso, ma che in realtà non lo era affatto; e cercai anche di dimostrarglielo. Naturalmente venni in odio a lui e a molti altri che erano con lui presenti. Mentre mi allontanavo pensavo così fra me: “Sono io più sapiente di costui giacché nessuno di noi due sa nulla di buono; ma costui crede di sapere mentre non sa; io almeno non so, ma non credo di sapere. Ed è proprio per questa piccola differenza che io sembro di essere più sapiente, perché non credo di sapere quello che non so”. E avvicinai un altro che mi sembrava che fosse più sapiente di costui; ma ottenni lo stesso risultato: quello, cioè, di venire in odio a lui e a molti altri ancora.

Siamo pecore, oppure no?

luglio 11, 2008

La dottrina, cioè l’istruzione e l’educazione di qualsiasi genere, non dovrebbe mai essere fine a se stessa.

Se certe nozioni ci vengono fornite per condizionare la nostra mente, per formare un bagaglio culturale a cui attingere regolarmente, diventano uno schermo che ci separa dalla nostra effettiva capacità di apprendimento.

La dottrina non deve insegnarci che “Questo è così e basta”.

Deve invece dirci: “Questa è la base che ti serve per costruire la tua idea”.

Se riusciamo a tagliare i legami che ci tengono strettamente avvinti alla religione e alle tradizioni, cominceremo a distinguere quanto di buono si trova in esse.

Potremo scegliere quello che va bene per noi, ciò che proviamo adatto a essere adoperato per l’edificazione del nostro personale sistema di vita, che non può essere uguale a nessun altro.

I principi sono gli stessi, siamo d’accordo.

Ogni religione e gran parte dei sistemi filosofici, politici e sociali espongono idee di grande valore.

Ed è bene farne tesoro.

Quando però si arrogano il diritto di dirigere la mia vita punto per punto, dicendomi quello che posso o non posso fare, definendo la punizione, sia fisica che spirituale, che mi aspetta se non ottempero ciecamente alle istituzioni, mi permetto di dissentire energicamente.

Nel nostro mondo la gente a tutti i livelli, e specialmente quelli che hanno in mano le redini del comando, diffidano di chi è capace e desideroso di ragionare con la propria testa, perché lo vedono come una minaccia alla loro autorità.

Le pecore non pensano a sovvertire la gerarchia del gregge.

Quando gli arieti si sono messi d’accordo a suon di cornate per scegliere il più forte, tutti gli altri membri del gruppo se ne stanno tranquilli e seguono passivamente gli ordini del capo riconosciuto.

Non si sognerebbero mai di fare domande, porre quesiti, suggerire cambiamenti, consigliare nuove strade.

Non pensano, perché questa è la loro natura, e per loro va bene cosi.

Siamo forse pecore anche noi?

O non abbiamo ricevuto invece da Dio il dono dell’intelligenza, di una mente che ragiona, che è capace di vedere nuove possibilità e opportunità al di là dell’accettazione passiva di regole e tradizioni ormai superate, o non più sufficienti a sopperire alle necessità spirituale dell’attuale momento storico?.